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Questo articolo è stato pubblicato il 14 aprile 2014 alle ore 08:48.

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Per la letteratura, se non per la storia, il 25 aprile di quest'anno segnerà un anniversario della Liberazione assolutamente eccezionale. Escono infatti da Einaudi – nei Supercoralli – i racconti semi-inediti di un vecchio partigiano bergamasco, il novantenne Giulio Questi. E sono racconti di tale qualità da iscrivere il nome dell'autore, dritto dritto e per diritto, in un elenco sceltissimo di combattenti-narratori della Resistenza italiana: nella compagnia sovranamente ristretta di Calvino, di Fenoglio e di Meneghello.

Cresciuto in una famiglia antifascista, dopo l'8 settembre 1943 Questi era passato quasi senza accorgersene dai banchi del liceo classico di Bergamo alle prime prove della Resistenza. Arrestato dalla Wehrmacht come attivista di Giustizia e Libertà, poi rilasciato, nell'inverno del '44 si era trovato a militare, in val Seriana, nella formazione di Angelo Del Bello, un comandante partigiano tanto efficace nella lotta contro i tedeschi quanto insofferente alla disciplina della Resistenza organizzata. Dopodiché Questi aveva raggiunto, in val Brembana, la banda autonoma dei «Cacciatori delle Alpi», nelle cui file aveva combattuto durante il secondo autunno, il secondo inverno e la seconda primavera: fino alla discesa su Bergamo, il 27 aprile 1945, e alla caccia all'uomo contro i collaborazionisti.

Come altri reduci del partigianato, della sua Resistenza Questi non aveva tardato a fare letteratura: due dei quindici racconti pubblicati oggi da Einaudi con un titolo scopertamente allusivo a Vittorini, Uomini e comandanti, uscirono già nel 1947 sull'einaudiano «Politecnico», diretto da Vittorini medesimo. Ma poi – per cinquant'anni – Questi ha avuto altro da fare che scrivere di Resistenza. Lasciata Bergamo per Roma, è diventato uomo di cinema. Attore, ha recitato ne La dolce vita di Fellini. Sceneggiatore, è andato a un passo dal realizzare, d'intesa con Fenoglio, la trasposizione cinematografica di Una questione privata. Regista, ha girato nel 1967 un film che gli esperti venerano come un cult-movie, lo spaghetti-western Se sei vivo spara. Soltanto negli anni Novanta, dopo mezzo secolo di silenzio condito dalle esperienze più varie (inclusa, nei Caraibi degli anni Settanta, la residenza non obbligata su un'isola deserta), Questi è ritornato a raccontare la sua guerra civile, dietro istigazione letteraria di colui che negli anni Sessanta aveva fondato l'Istituto della Resistenza di Bergamo: lo storico Angelo Bendotti, che di Uomini e comandanti firma ora un'intensa postfazione.

La narrativa di Questi appare come sospesa sulla vertigine di un paradosso: nei suoi racconti c'è tutta la Resistenza, ma non c'è nessuna Resistenza. C'è tutta la Resistenza, nel senso che il lettore incontra – episodio dopo episodio – la gamma completa o quasi delle situazioni rilevanti in un'esperienza partigiana. C'è il formarsi incerto delle bande, l'aggregazione casuale di volontari malmessi. C'è l'organizzarsi difficile delle brigate, l'alchimia precaria della dissidenza e dell'obbedienza. Ci sono gli amorazzi rubati alla lotta, gli spaventosi rastrellamenti e gli aviolanci mancati, le pietose onoranze per i compagni caduti, gli spietati conflitti interni al partigianato. Ci sono gli attacchi temerari contro i presidi della Guardia nazionale repubblicana, e ci sono le spedizioni punitive contro gli ufficiali di Salò.

Ma non c'è nessuna Resistenza, nel senso che il lettore cercherebbe invano un qualunque filo che non sia puramente narrativo. Un filo cronologico. Un filo ideologico. Al limite, un filo logico che tenga uniti spazi e tempi, alto e basso, amici e nemici. Eppure, dalla prima pagina all'ultima i racconti vivono di una loro coerenza evidente, assoluta, garantita dalla compresenza sorprendente – quasi miracolosa – di un registro neorealistico e di un registro fiabesco. Il miracolo di Giulio Questi è la scrittura di una Resistenza, insieme, tutta cose e tutta favole.

Se è epopea, Uomini e comandanti è epopea della polenta. Dea benefica per i partigiani, quand'anche malcotta o grumosa, sporca o trafugata. Dea benefica anche quando, indugiando oltre misura nei loro visceri, li condanna a produrre infine tra i cespugli «pallettoni neri», «numerosi e rotolanti come lo sterco delle capre». E benefica perfino quando, nei sogni notturni, i «grandi seni» di donne sconosciute si tramutano in «polente fumanti appena riversate dal paiolo». Anche fuori dai sogni, d'altronde, quello dei partigiani è più sesso che amore. Li accende il «culo alto» della contadina senza nome che ha un modo tutto suo di mostrare loro la lingua, prima di portarsene due sulla paglia. Li inebria – o almeno inebria Clem – il sapore di Stella, la trentenne tranquilla che il vergine diciottenne possiede «con il muso, a grandi colpi, come un vitello affamato».
La fisicità dei partigiani di Questi è quella povera, scabra, irredimibile dei montanari della Bergamasca. Bovari o carbonai, pastori o uccellatori la cui sostanza umana sembra fare tutt'uno con la sostanza zoologica delle creature che li circondano, nei prati come nel bosco: galline, vacche, maiali, ma soprattutto larve, formiche, salamandre, ragni, vipere, e l'esercito variamente svolazzante di tafani e calabroni, cornacchie e lucherini, storni e fringuelli. Più ancora che Italo Calvino, si direbbe che Giulio Questi abbia combattuto la Resistenza da entomologo. Forse perché il suo sguardo di studentello era già, senza saperlo, quello del cineasta. «Da partigiano ho sempre avuto un'attenzione esasperata a dove mettevo i piedi e gli occhi. Oggi si dice immagine ad alta definizione», ha dichiarato Questi in un'intervista del 2010.

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