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Questo articolo è stato pubblicato il 28 aprile 2014 alle ore 11:51.

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Giotto, «La resurrezione di Lazzaro», Padova (cappella degli Scrovegni, part.)Giotto, «La resurrezione di Lazzaro», Padova (cappella degli Scrovegni, part.)

Dieci anni fa moriva a New York la scrittrice Susan Sontag, di matrice ebraica ma dotata di una curiositas culturale onnivora e cosmopolita. Ebbene, a metà degli anni '70, quand'era ancora quarantenne, fu colpita da una forma tumorale dalla quale, però, riuscì a guarire. Su quell'esperienza traumatica compose nel 1978 un'analisi forte e appassionata, emblematicamente intitolata Malattia come metafora (tradotta l'anno successivo da Einaudi). L'interpretazione simbolica della malattia che essa offriva infrangeva il mito dell'approccio solo tecnico, affidato alla terapia medica in modo esclusivo.

La malattia nella persona umana è, infatti, un impasto inestricabile di fisicità e spiritualità, di biologia e psicologia, di dolore materiale e di desolazione interiore.
È appunto una "metafora" esistenziale o, meglio, un "simbolo" che unisce in sé corpo e anima, per cui i sintomi non sono solo quelli registrabili dalle macchine e dai loro diagrammi ma anche dalla soggettività umana. In questa luce si comprende perché la moderna medicina si affanni a proporre un'"alleanza" tra medico e paziente, ossia una sorta di sintonia che valichi l'evidente disparità tra la "verticalità" vitale e magisteriale del medico e l'"orizzontalità" inferiore e mortale della posizione del paziente. È un po' anche per questo che in tutte le culture medicina e religione sono state a lungo sorelle, anzi, si sono confuse tra loro. Alla base di questa unione c'era un principio importante di antropologia: l'unitarietà psicofisica della persona, spesso accantonata da un certo supponente scientismo esclusivistico moderno (e naturalmente dai santoni e maghi guaritori, per il verso opposto).

Detto questo, però, non si deve rifiutare la conquista – altrettanto moderna – della distinzione degli approcci: se il sofferente è uno solo pur nella complessità della sua struttura, distinti (anche se non separati) sono i protocolli degli interventi. Detto in maniera brutale, il cappellano non deve diventare un curatore che propone filtri terapeutici e il medico non deve disprezzare chi offre spiritualità e sostegno morale. Per usare una famosa locuzione di Stephen Gould, scienziato statunitense, si tratta di non overlapping magisteria, di magisteri indipendenti e non sovrapponibili tra loro che, però, s'incontrano e operano sullo stesso soggetto.
Ecco perché è legittimo considerare la malattia non solo nel suo "fenomeno", nella sua "scena" esteriore, sperimentale, ma anche nel suo fondamento ultimo che rimanda alle dinamiche radicali sul senso del limite creaturale e del male. In questo senso, allora, le risposte "metafisiche" – sia pure incomplete e imperfette – sono talora altrettanto necessarie per il sofferente come quelle che l'altro "magistero" gli consegna, e possono esercitare un loro effetto benefico. Ora, pur tenendo conto delle incertezze che la storicità della Bibbia rivela (non di rado, infatti, i due protocolli sono confusi e peccato e malattia vengono mescolati tra loro), è interessante scoprire quale sia il vero significato dell'opera di Gesù guaritore.

Che il fatto sia indiscutibile è attestato da un dato oggettivo: quasi il 45% del racconto dell'attività pubblica di Cristo secondo il Vangelo di Marco è occupato da guarigioni, tant'è vero che un teologo, René Latourelle, ha potuto scrivere che «eliminare i miracoli di Gesù dai Vangeli sarebbe come immaginare l'Amleto di Shakespeare senza il principe». Gli interventi di Gesù sono, però, rubricati dagli evangelisti in una categoria non medica. Giovanni adotta il termine greco seméia, sono "segni" di un diverso livello, esigono cioè un'ermeneutica trascendente. Gesù non esita a rigettare ogni confusione tra malattia e colpa così da avallare un primato esclusivo della teologia sulla medicina: del cieco nato dice esplicitamente che «né lui né i suoi genitori hanno peccato perché costui nascesse cieco» (Giovanni 9,3), diversamente dall'opinione allora dominante.

La richiesta che egli fa al sofferente non è quella di applicare alcune terapie da lui escogitate ma semplicemente di avere fede perché egli – che si presenta come il Figlio di Dio – vuole proporre una rivelazione sulla meta ultima a cui è destinata la creatura limitata, fragile e caduca. Essa è quella della nuova creazione escatologica nella quale – come accade nei malati che sono da lui liberati dal loro limite come segno di quel futuro – si avrà la redenzione piena dal male. Cristo, perciò, presenta un segno in azione, una prefigurazione dinamica del futuro Regno di Dio che sarà liberato da «morte, lutto, lamento e affanno», come si legge nell'Apocalisse (21,4). È, dunque, il suo un seme deposto nel terreno della storia per delineare non un progetto "transumano" scientifico, bensì un esito trascendente. E la già evocata unitarietà psicofisica della persona esige nel "segno" un coinvolgimento di tutto l'essere, spirito e corporeità.

Di questo tema e dei diversi approcci che la Bibbia e la religione in genere hanno adottato per interpretare una realtà così "simbolica", cioè unitaria e complessa, che è la malattia discute il gesuita belga Guy Vanhoomissen nel suo saggio sulla malattia e la guarigione. Forse in alcuni nodi di questo discorso, che è pur sempre rovente, egli si rivela un po' sbrigativo, ma è importante – contro le frequenti ingerenze del miracolismo avallate da alcuni contesti devozionali soprattutto mariani – definire l'autentica finalità dell'azione di Cristo. Egli, poi, non solo si confronta col male fisico, ma lo assume in sé attraverso il percorso oscuro e tragico della sua Passione. Vivendolo nella sua persona, egli vi depone la sua energia salvifica di Figlio di Dio, un principio non "farmacologico" ma trascendente che però si semina nell'unità della persona umana così da «trasfigurare il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso», come scriverà Paolo ai cristiani di Filippi (3,21).

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