Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 24 maggio 2014 alle ore 09:33.

My24

Somiglia a una rockstar più che a uno scrittore. E, come ogni rockstar che si rispetti, ha due ordini di problemi: un rapporto conflittuale tra pubblico e privato e una storia di dipendenza. Solo che non fa concerti sold out al Barclays Center, non pubblica dischi che prendono 10.00 su Pitchfork e non finisce sulla copertina di Rolling Stone. Potrebbe: ha quella fisicità, ha quei tormenti. Ma Karl Ove Knausgård fa letteratura. Anche buona, per lo più.

Nato e cresciuto in Norvegia e ormai residente in Svezia, lo scrittore dall'aspetto di una vecchia gloria della new wave ha fatto impazzire i suoi connazionali con Min Kamp (in italiano sarà tradotto come La mia battaglia, vedi box a pagina 82), un ciclo di libri in cui affronta nient'altro che la sua banalissima e tediosissima vita. Il titolo in norvegese è identico a quello del Mein Kampf, il memoriale di Hitler. Dietro la provocazione nasconde una cristallina ovvietà: non sarà eroica, una vita spesa tra pannolini e passeggini, ma è comunque una battaglia. E se non va celebrata, va quantomeno ricordata.
Da quando ha pubblicato i sei volumi di Min Kamp tutti vogliono un pezzo di Karl Ove Knausgård. Non che fosse uno sconosciuto prima: a trentasei anni aveva già pubblicato due romanzi (uno dei quali sulla Bibbia e sugli angeli), vinto dei premi e ottenuto il favore della critica. Ma non era stato ancora investito da tutti i crismi dello stardom (i fan, i media antagonisti, il disprezzo che ne consegue), non riempiva le arene e Zadie Smith, Jeffrey Eugenides e Jonathan Lethem ancora non si sperticavano in elogi. E così, colto da una non meglio precisata insoddisfazione, lo scrittore ha abbandonato la moglie, si è trasferito in Svezia, ha sposato una scrittrice su cui fantasticava da tempo ed è diventato padre di tre bambini. E all'età di trentanove anni si è messo a lavorare sul primo volume di Min Kamp. Tra il 2009 e il 2011, tra un cambio di pannolini e una fastidiosa festa di compleanno, Knausgård ha scritto venti pagine di prosa al giorno, per un totale di quasi 3.500 pagine.

Alla ricerca del realismo perduto
In Norvegia, una nazione di cinque milioni di persone, i libri hanno venduto mezzo milione di copie. Significa che un norvegese su dieci si è portato un pezzo di Knausgård a casa, se non in ufficio. Così come sui social vige il divieto di spoiler all'indomani di una qualsiasi puntata di una serie televisiva, per un certo periodo nei luoghi di lavoro di Oslo e dintorni sono state indette delle giornate Knausgård free. A quanti scrittori che non parlano di maghi e di sette regni capita una cosa così? Va anche detto che la Norvegia è il Paese in cui spopola la slow tv e dove la televisione di Stato, la Nkr, ha mandato in onda minuto per minuto le 134 ore di un viaggio in crociera senza istigare lo spettatore a cambiare canale (o a togliersi la vita). I numeri di Min Kamp sono importanti non solo perché rendono conto dell'estensione del fenomeno, ma anche perché sono all'origine di un ottuso equivoco: non basta la mole dei libri per tirare in ballo Alla ricerca del tempo perduto. E non basta neanche il fatto che l'opera sia in gran parte un esercizio di memoria. Marcel Proust non ha mai dovuto confrontarsi con la televisione, né con Google. Knausgård, seppur inconsciamente, sì.
In una delle rare interviste concesse dal villaggio in cui vive in esilio come un reduce che deve smaltire lo shock post-traumatico da reality («Qui della letteratura non gliene importa niente a nessuno», dice), lo scrittore ammette che a orientarlo verso l'autobiografia è stato un senso di nausea nei confronti di un mondo congestionato da storie. Detto altrimenti, la fiction aveva iniziato a fargli schifo. Un giorno i suoi esegeti indugeranno a lungo sulle cause che lo hanno portato a intraprendere un'opera di denudamento pubblico di questa portata invece di limitarsi a scrivere un romanzo deprimente e autobiografico come qualsiasi autore più banale o sano di mente avrebbe fatto al posto suo. Non che la vita di Knausgård sia da rotocalco: a parte un rapporto troppo intimo con l'alcol, un padre negligente, una moglie bipolare e la noia di essere genitore, Min Kamp è un memoir atipico perché fa tutto tranne che basarsi sulla straordinarietà dell'esperienza. Ma qualsiasi retroscena familiare, se sviscerato con l'onestà di cui è capace e soprattutto in tempo reale, diventa sensazionale. Se sua moglie impazzisce, Knausgård lo scrive. Se sua nonna viene ritrovata in condizioni animalesche, Knausgård lo scrive. Se suo padre, ingombrante quanto quello di Kafka, sul tavolo dell'obitorio diventa né più né meno di un oggetto («Mio padre si è preso quel che doveva arrivare, era una buona cosa che fosse morto, e qualsiasi parte di me affermasse il contrario stava mentendo»), Knausgård lo scrive. Gli unici episodi davvero crudi sono quelli in cui lui e il fratello sono costretti a pulire la casa della nonna dagli escrementi della donna ormai incontinente, o quelli in cui si ritrovano a gestire la morte del genitore – un insegnante impegnato in politica– scopertosi alcolizzato. O quando nel secondo volume (intitolato A Man in Love nell'edizione americana) la moglie viene descritta come l'amore di una vita ma anche come una maniaca deprimente e depressa che nessuno vorrebbe accanto.

Un patto faustiano
La scrittura autobiografica lascia sempre feriti sul campo. Nel caso di Knausgård il bilancio è particolarmente sanguinoso: un ramo familiare totalmente disconosciuto, una suocera incazzata, la moglie ricoverata. Resta una percentuale trascurabile di eventi, se paragonata alla mole dei volumi. Il resto sono tutte interazioni quotidiane minime: bustine di tè e peni da raddrizzare, Knausgård che legge Adorno o piange davanti a un quadro di Constable. Ma di cattiveria c'è n'è abbastanza per offendere la morale di chiunque.

Commenta la notizia

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi