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Questo articolo è stato pubblicato il 22 giugno 2014 alle ore 08:14.

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«Ecco l'eccellente stupidità del mondo. Quando siamo vittime della fortuna, incolpiamo delle nostre sciagure il sole, la luna, le stelle, come se fossimo canaglie per necessità, furfanti, ladri e traditori per il dominio di quelle sfere»: nel Re Lear, Edmund distingue in maniera chiara le responsabilità degli uomini da quelle della Fortuna. Non serve a nulla dare la colpa alla dea bendata, al fato, alla malasorte se noi siamo dei «malfattori, dei ladri, delle canaglie».
Sarebbe impossibile voler ripercorrere in un breve intervento ciò che gli esseri umani – nella letteratura e nell'arte, nel mito e nella filosofia – hanno voluto rappresentare sotto le spoglie della dea Fortuna. Dispensatrice della cattiva o della buona sorte, antagonista per eccellenza della virtù, ministra della provvidenza divina, espressione della casualità, messaggera delle disposizioni dei pianeti e delle stelle, occasione (kairòs) per mettere alla prova la virtù, impietosa dominatrice della ruota delle vicissitudini, alla dea bendata sono stati attribuiti, nel corso dei secoli, ruoli opposti e contraddittori.
E per evitare di scivolare nelle sabbie mobili delle infinite occorrenze, ho voluto limitare il mio intervento alle bellissime pagine che Giordano Bruno dedica al tema della Fortuna nel suo dialogo Lo spaccio de la bestia trionfante, pubblicato a Londra nel 1584. Qui la dea bendata smonta con molta finezza tutte le accuse. E spiega che il suo ruolo incarna una necessità: nessun essere umano può scampare, infatti, all'urna della mutazione. Ma solo pochi, purtroppo, saranno favoriti da una mano che non può commettere ingiustizie, perché proprio la cecità garantisce la totale uguaglianza di tutti gli uomini di fronte alla sorte («Non veggio mitre, toghe, corone, arti, ingegni ...; e però quando dono, non vedo a chi dono»).
All'interno di questo meccanismo naturale non c'è possibilità di infliggere torti. La comune radice degli esseri umani viene rispettata. Nell'urna ogni «schedula è uguale a quella di tutti gli altri». Ma se la Fortuna estrae una moltitudine di ladri e di inetti la colpa non è sua. Non può esserle attribuita una responsabilità che riguarda la Virtù o la Verità. Come sarà possibile estrarre uomini virtuosi e onesti se nell'urna vengono depositati, assieme a «otto o nove» individui di valore, «otto o novecentomila» esseri bestiali e imbroglioni?
La dea bendata riconosce all'uomo la possibilità di poter condizionare gli eventi. Alla necessità che siano pochi a governare («Non è errore che sia fatto un prencipe: ma che sia fatto prencipe un forfante»), segue la possibilità che sia l'umanità stessa a determinare in maniera positiva questa scelta: «Or non è possibile che un principato sia donato a tutti; ma l'errore consiste che quel l'uno è vile, che quell'uno è forfante». Bruno aveva pensato già due anni prima, nel Candelaio, a teatralizzare la sua visione tutta umana della Fortuna. Gioan Bernardo – che con la sua astuzia conquista la bella Carubina – si vanta di esser riuscito a «apprendere pe' capelli l'occasione»: un'espressione che allude all'atteggiamento «impetuoso» di un famoso passaggio del capitolo XXV del Principe, in cui Machiavelli invita a non essere «respettivo» (cioè a non procedere con cautela) perché «la Fortuna è donna, e è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla».

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