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Questo articolo è stato pubblicato il 29 giugno 2014 alle ore 08:15.

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Che cosa c'è in un nome, che cosa ci dice davvero una "firma d'artista"? Può parerci ovvio: la firma certifica la piena autografia dell'opera su cui è apposta, la soddisfazione o l'orgoglio dell'artista che l'ha prodotta, la sua importanza rispetto alla biografia del maestro (perciò accanto alla firma c'è di norma la data), ma anche rispetto al mercato. Ma in quel lungo momento formativo che chiamiamo Medio Evo le cose sono molto più complicate, molto più interessanti: e lo mostrano con forza speciale le indagini accanite e originali che da anni va conducendo Maria Monica Donato, con il suo gruppo di ricerca della Normale di Pisa. Peter Cornelius Claussen, Albert Dietl e altri studiosi hanno prodotto su questo tema contributi di grande interesse, ma Donato ha adottato una metodologia di un'ampiezza e radicalità senza precedenti sia per l'estensione cronologica (dal VII secolo alla tarda età gotica) che per la gamma degli oggetti presi in considerazione. Con scelta meditata e felice, il suo lavoro non riflette le gerarchie moderne, ma l'ordine dei valori di quelle trascorse età: così scopriamo, per esempio, che fra gli oggetti d'arte più spesso "firmati" vi sono più campane (allora pregiatissime) che quadri o sculture. Ampliando il ventaglio d'indagine fino a includere in un solo sguardo gli architetti delle cattedrali e gli orafi di calici e reliquiari, la ricerca ha preso la forma, coraggiosa e inevitabile, di un vero e proprio corpus delle Opere firmate nell'arte italiana (Medioevo), paziente costruzione accessibile come base di dati in progress e attraverso gli studi di una rivista dedicata on line (dal 2009), «Opera Nomina Historiae - Giornale di cultura artistica», (http://onh.giornale.sns.it), di cui è uscito da poco il volume 5/6 che offre anche in versione libraria (UniversItalia) uno straordinario spaccato, dedicato agli orafi di Siena, di questo accurato censimento. Si vede così quanto ambizioso sia l'approccio qui proposto: per ciascuna menzione epigrafica di un nome d'artista vien data non solo la fedele analisi dell'iscrizione (S. Riccioni, M. Pantarotto), corredata di nuove foto, ma un puntuale inquadramento dell'intero oggetto su cui essa fu apposta, e una messe di dati sulla provenienza, la committenza, il profilo degli artisti, la vicenda degli oggetti (M. Tomasi, E. Cioni). Con scelta rigorosa e ardua, «il criterio dell'origine e della cultura dell'artista prevale su quello della destinazione»: così, il polittico di Simone Martini già a Pisa verrà registrato nei volumi senesi, e viceversa la stauroteca di artisti pisani a Massa Marittima troverà posto nei volumi su Pisa.
Si delinea così sotto i nostri occhi l'incipit di una nuova mappa dell'arte medievale italiana, in cui le "firme" non sono l'anticipazione modernizzante di quelle di De Chirico o di Picasso, ma una sequenza di precoci memorie d'artista, prodromo di quella "letteratura artistica" che da Vasari in poi diventerà il nerbo e la radice di ogni possibile storia dell'arte. Queste "firme" non esaltano l'autografia, valore estraneo alla prassi di bottega medievale, ma attestano la responsabilità di un capo-bottega, messa per iscritto talora per testificare l'adempimento di un obbligo contrattuale, in altri casi a mostrare la devozione dell'artista a un patrono celeste. Si viene così costruendo non solo un corpus di dati, ma un inventario di pratiche artistiche, culturali, linguistiche, all'incrocio fra storia dell'arte, storia economica e storia sociale; per non dire delle implicazioni paleografiche e linguistiche (troveremo nel corpus iscrizioni in latino e in volgare, ma anche in greco, in arabo, in siriaco). Com'è nella sua natura di progetto multimediale e multidisciplinare, questa ricerca esplora anche angoli inattesi, per esempio le firme occultate o cifrate, come il monogramma di Vitale da Bologna, impresso come un marchio a fuoco sulla groppa di un cavallo per alludere al cognome dell'artista, Degli Equi: quasi un anticipo del vero e proprio rebus escogitato da Dosso Dossi nel suo San Girolamo di Vienna, dove si "firma" combinando una D con un osso. Per non dire del caso eccezionale di Lando di Pietro, che nel gennaio 1338 inserì all'interno di un crocifisso due pergamene dove il suo nome ricorre ben otto volte, ma in una preghiera. Emerse nel 1944 in seguito a danno bellico, queste scritte completano la biografia di Lando (già noto come orafo e ingegnere), facendone uno scultore, e mettono allo scoperto la sua alta intenzione, scolpire la Croce nel legno «per dare memoria a la gente de la Passione di Gesù».
La Siena da cui vengono gli orafi del volume appena uscito è la città del Costituto del 1309, dove ai governanti della città si prescrive di averne a cura «massimamente la bellezza», onde essa sia «onorevolmente dotata et guernita», «per cagione di diletto et allegrezza ai forestieri, et per onore, prosperità et acrescimento de la città et de' cittadini di Siena». Anche le splendide oreficerie della sua officina gotica, tra le più intense e inventive, dispiegano questa assidua ricerca di bellezza, in una città che nel proprio sigillo si auto-caratterizzava come programmaticamente amena, cioè animata dalla gioia dell'ornamento e della vita urbana. Perciò dei più che trecento "casi" censiti nel Senese (senza contare le oltre cento campane) anche il più ristretto campionario delle oreficerie offerto da questo libro include larghe migrazioni nei musei di tutto il mondo, da Berlino a Cambridge, dal British Museum a Baltimora. Perciò già nel Trecento oreficerie senesi viaggiarono altrove, prestigioso dono di vescovi, custodia di reliquie, addobbo di cattedrali. A Toledo ancora si conserva un reliquiario senese (c. 1350-60) donato dal celebre cardinale Egidio Albornoz; altre oreficerie senesi sono ad Avila e a Lione. Spettacolare il busto-reliquiario di Sant'Agata nella cattedrale di Catania, datato 1376, che il senese Giovanni di Bartolo "firma" con un'iscrizione latina in esametri che menziona l'artista e il padre, ma anche la loro patria, "la celebre Siena".

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