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Questo articolo è stato pubblicato il 25 agosto 2014 alle ore 07:52.

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IL BATTESIMO: NUOVI ORIZZONTI Un giorno lontano, a chi ci parlava di golf, anche noi, miserabili bruchi, rispondevamo ridacchiando. Si viveva nell’incosciente banalità dei luoghi comuni: il golf è un gioco di vecchietti, il golf è un pretesto snobistico per fare una passeggiata, meglio il popolaresco gioco denominato “la lippa”. E così passavano, sprecati, i più begli anni della vita.

Ma il caso un giorno portò l’ignaro entro i confini di un campo da golf. Egli era andato unicamente per accompagnare un amico, da poco tempo redento.

Alla piazzuola di partenza della prima buca (si chiamano buche in senso lato le 18 o 9 piste erbose in cui è diviso il percorso), alla prima piazzuola di partenza l’amico, com’è di regola, infilò nel terreno un affarino simile a un grosso chiodo (detto tee) e vi depose sopra la palla, la quale, così rialzata dal suolo, offre più facile bersaglio. Impugnò quindi il legno numero 1 (uno di quegli strani arnesi che avevamo sempre osservato con diffidenza nelle vetrine dei negozi di sport), lo roteò lentamente sopra la testa, quindi lo sferrò con impeto in basso, ma urtò malamente la terra: appena sfiorata, la pallina schizzò di traverso, scomparendo nell’intrico del bosco.

Echeggiò una risata: il ragazzo portabastoni, avvezzo al galateo golfistico, alzò gli occhi indignato: l’ignorante, che per comodità chiameremo Giovanni, sghignazzava senza ritegno, senza neppur lontanamente immaginare che tale villania per anni e anni gli avrebbe poi consumato il cuore di rimorso e vergogna.

L’amico era un novizio, convinto della bellezza del gioco ma purtroppo incapace di dimostrarla praticamente. Su dieci colpi, sette spedivano la pallina a rotolare nel bosco, o nei fossi, o nelle apposite infossature sabbiose che gli inglesi chiamano bunkers. Giovanni ben presto si stancò di osservarlo e sulla terza buca, tanto per fare qualcosa, si fece prestare una mazza (ce ne sono nove con la testa in ferro, di numero crescente quanto più curva deve riuscire la traiettoria, tre in legno per i colpi più lunghi, e il cosiddetto putter per spingere la palla, sulle levigate piazzuole d’arrivo, a infilarsi nella buca propriamente detta: un foro rotondo nell’erba largo 10 centimetri).

Si fece prestare una mazza, si informò in che modo pressappoco la si dovesse impugnare, l’alzò in aria, l’abbassò con impeto, la infisse per una buona spanna nel terreno, sollevando una gigantesca zolla, mentre la pallina, mossa soltanto dal tremendo spostamento d’aria, procedeva in avanti per mezzo metro. L’amico, che aveva cuore umano, non rise.

Vivaddio, Giovanni non poteva metterla via così. Provò un secondo colpo, con l’avvertenza di non abbassarsi troppo e con il risultato di non sfiorare neppure la palla. Ne provò un terzo, un quarto, invano. Finalmente, al quinto, per uno di quei miracoli che il misericordioso dio del golf elargisce anche ai paria, la paletta della mazza battè in pieno la pallina, si udì un piacevolissimo “tac!” di timbro metallico e la bianca sfera schizzò in avanti fischiando, in modo da percorrere almeno 130 metri.

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