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Finanza e Mercati In primo piano

Le carte che dettano il gioco delle Borse mondiali

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Questo articolo è stato pubblicato il 25 maggio 2010 alle ore 11:41.

Liquidità, tassi d'interesse e tecnologie. Ancora: crescita economica, nuove regole e fiducia. Di più: euro debole e debiti sovrani. Sono alcune delle carte che possono decidere i giochi in Borsa. Già, le carte. Non tutte sono uguali, non tutte hanno la stessa importanza. Bisogna capire chi può essere il Jolly, e quali il Re e la Regina di quadri. Ma anche chi è il "2" di picche, magari nascosto sotto le mentite spoglie del fante di cuori. Il Sole24ore.com, senza alcuna pretesa di completezza, ha tentato di dare, e leggere, le carte ai mercati azionari.

La liquidità, il Jolly che "droga" le quotazioni
Una delle carte più rilevanti, forse il Jolly, è l'enorme quantità di "moneta frusciante" presente sui mercati. Una liquidità, pompata dalle banche centrali per evitare il collasso del sistema, in caccia del giusto ritorno sull' investimento. E che, giocoforza, altera l'andamento delle azioni e degli altri asset finanziari: ne amplifica fortemente i movimenti al rialzo e al ribasso. Un esempio è dato dal balzo dell'oro. «La spinta dei prezzi - dice Adrian Ash, responsabile della ricerca per BullionVault.com - arriva dalla cosiddetta investment demand, cioè dagli acquisti che guardano al metallo giallo come asset finanziario, come lingotto di carta».

Da un lato si spinge il rally dei prezzi, sperando in una vendita con plusvalenza. Dall'altro, si cerca protezione contro l'eccessivo rischio rappresentato da altri mercati. Questa situazione è comprovata dai dati di World Gold Council: nel primo trimestre del 2010, la compenente investment è cresciuta del 7%, rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente; al contrario quella legata alla gioielleria è scesa del 20% e quella industriale del 16 per cento.

Peraltro proprio la liquidità, a fronte dell'easy money, (1% il Refi in Europa) può dare spinta (ma anche toglierla) alle Borse in maniera più diretta. «Pensiamo ai titoli che offrono una buona cedola - dice Mario Spreafico, direttore investimenti di Schroder investment banking -. Lì gli operatori vanno in acquisto, facendo salire le quotazioni»
.

L'euro debole, per adesso un "6" di denari
L'Abc del rapporto tra moneta e mercato borsistico insegna che, in un mondo normale, quando la divisa si svaluta i listini salgono: la correlazione, cioè, è inversa. Una "currency" debole significa più facilità nelle esportazioni, maggiori profitti delle aziende quotate, più alti eps e successivi rialzi delle quotazioni. Certo, ci sono paesi più sensibili all'export di altri. «E l'Europa -spiega Rony Hamaui, docente di mercati monetari internazionali alla Cattolica di Milano - è una di queste». In linea teorica quindi con l'euro che si indebolisce, come nelle ultime settimane, i mercati azionari avrebbero dovuto salire: così non è stato.

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«Questa relazione - afferma l'esperto - va in "tilt" nei casi eccezionali. Ricordo, per esempio, il default dell' Argentina nel 2001. Allora la fuga di capitali che colpì il paese ebbe un effetto negativo sia sulla moneta, sia sui mercati azionari che su tutta l'economia di Buenos Aires. Venne a mancare la fiducia nel sistema-paese». Una situazione che più in generale si ripete adesso.

«Le debolezze strutturali connesse alla moneta unica, dai debiti sovrani alla mancanza di un'integrazione politica europea, fanno aumentare i flussi finanziari in uscita dalla divisa di Eurolandia». Ma la crisi di fiducia riguarda il sistema Europa nel suo insieme e "attanaglia" anche le Borse: alla fine ci si rifugia nella liquidità o nel reddito fisso governativo di qualche stato considerato più solido. Il risultato? Anche l'azionario va giù, e la correlazione inversa euro-debole/azioni-forti viene meno.

La crescita economica, il "10" di fiori
Gli operatori, sempre di più negli ultimi tempi, passano ai raggi x il mercato del lavoro, in particolare quello americano. Messe alle spalle le ristrutturazioni aziendali per incrementare la produttività, il focus è ora sul fronte della domanda. L'andamento della disoccupazione, in gennaio arrivata Oltreoceano al 10%, è un market driver importante: se le persone senza lavoro diminuiscono, c'è la ripresa dei consumi e, in definitiva, una spinta all'economia. E lo stesso discorso vale, ad esempio, per il mercato immobiliare: nuovi cantieri e nuove licenze significano investimenti che, con il moltiplicatore keynesiano, dovrebbero spingere il motore Usa. Tutto fa brodo, insomma, per aggrapparsi alla crescita del Prodotto interno lordo.

Anche perché, piaccia o no, la finanziarizzazione dell'economia ha creato un legame strettissimo tra la "Strada del Muro" e la strada di mr e mrs Smith, tra titoli azionari e realtà. «Nell'ultimo decennio - ricorda Spreafico- la Borsa si è aperta moltissimo all'investitore retail; la crescita dei mercati aveva prodotto un aumento delle disponibilità di molti, con il relativo incremento della propensione al consumo. Cui si era aggiunto anche un ottimismo di fondo, che ha fatto da leva alla domanda aggregata. È il cosiddetto "effetto ricchezza"». Ora questo meccanismo è inceppato, ma la ricerca del Graal della crescita, da parte degli operatori, resta inalterata.

Non può stupire, quindi, che in Europa il mercato azionario con meno perdite (-1,5% alla chiusura di mercoledì 19 maggio) sia quello di Francoforte, cioè del paese che, secondo Eurostat, nel primo trimestre 2010 ha realizzato una dei migliori balzi in avanti sul Pil (+1,5% rispetto allo stesso periodo del 2009).

Alla fine, la "carta" del Pil influenza le Borse. Anche se un'altra è stata gettata con forza sul tavolo, nascondendo un po' quella del Prodotto interno lordo: il debito sovrano.

Il debito sovrano è il "re" di quadri
È una carta con "figura", forse il re di quadri: i conti pubblici sono una variabile fondamentale per le Borse. Il tutto per un mix di cause. In primis, ci sono le azioni finanziarie. Le banche quotate hanno in portafoglio, sia negli Usa sia in Europa, molti titoli di stato. Il rischio legato alle difficoltà dei bilanci pubblici si ritorce su queste azioni. Basta riscordare cosa è successo giovedì 6 maggio: dopo l'allarme di Moody's per il possibile contagio del debito-sovrano sulle banche italiane, i titoli finanziari a Piazza Affari sono tracollati: molti investitori hanno venduto per "coprirsi" proprio da pericolo del debito pubblico; altri hanno venduto allo scoperto scommettendo sul ribasso; altri ancora hanno venduto presi dal panico. Il risultato finale è stato un bagno di sangue.

Ma non sono solo gli istituti finanziari. Il legame è anche meno automatico e più umorale. Non è un caso che i paesi con il più alto rapporto debito/Pil (Italia, 116,7%; Portogallo, 84,6%) o con la dinamica peggiore sul deficit/Pil (Spagna) abbiano subito più perdite in Borsa rispetto, per esempio, al Dax tedesco, dove il rapporto debito/Pil di Berlino è del 76,7 per cento. In questi casi, seppure Moody's e S&P's abbiano rilevato che, per sempio, l'Italia ha meno rischi rispetto agli altri stati periferici, il mercato non si fida. Ha paura; dà un giudizio sommario sul sistema paese e, per non sapere né leggere né scrivere, vende. A Mani basse.

Il debito, infine, ha proprio in Eurolandia una rilevanza notevole. Lo sforamento dei parametri di Maastricht, al di là del "vizio formale", è l'indizio di una fragilità dell'eurozona che ha messo in dubbio l'esistenza stessa della moneta unica. «Un'azienda con molti debiti -ricorda Spreafico - deve fare crescere il suo attivo, al fine di evitare che il debito stesso possa consolidarsi: la crescita permette di avere i flussi di cassa per pagare gli interessi». E allora? «Bè in Europa, dovendo rientrare nei parametri del patto, sono state avviate le manovre correttive. Invece di puntare sulla crescita degli attivi, del Pil, si rischia di rallentare la già debole ripresa». Un freno a mano che può ridurre la domanda, far calare gli utili aziendali e, in ultima istanza, le quotazioni. In questo quadro, si crea una sfiducia di fondo che porta anch'essa a vendite generalizzate in Borsa. Insomma, di nuovo non si vendono le banche ma il sistema paese.

La politica è l'"8" di fiori
«I mercati snobbano la politica» è il classico leit motive sempre rimbalzato dalle sale operative. Mai come in questo periodo questa dichiarazione suona vuota e stonata. Due eventi recenti sono lì dimostrarlo.

Il primo ci riporta al 19 maggio scorso, quando la cancelliera tedesca Angela Merkel, con l'intenzione di "spronare" il Bundestag all'approvazione dello scudo pro-euro da 750 miliardi, ha detto: «La moneta unica è in pericolo. Tutti noi sentiamo che l'attuale crisi è la più grande sfida che l'Europa deve affrontare da decenni». Una dichiarazione, unita al divieto uniliaterale di Berlino sullo short-selling, che ha fatto sprofondare in rosso le Borse. Il retro-pensiero del mercato è stato: l'allarme lanciato indica che la "politica" sa di qualche problema di cui noi siamo all'oscuro.

Il secondo, invece, risale a qualche tempo prima, la domenica 9 maggio. In quel giorno i ministri dell'Eurozona hanno varato il maxi-piano per blindare la moneta unica; dopo le vendite di venerdì, sono scattate le ricoperture e Piazza Affari ha chiuso in rialzo dell'11,3 per cento. Una fiammata durata un giorno, certo. Ma che ha mostrato come l'attuale mercato "laterale" e umorale sia molto sensibile a quello che dice, e fa, la classe politica.

Tra le regole, la carta che "pesa" è Basilea III
La riforma della finanza a Wall Street; una nuova Tobin Tax; limiti alle agenzie di rating. Fiumi di parole sono state pronunciate sul tema della regolamentazione dei mercati ma i risultati concreti sono scarsi e pure poco influenti. Un esempio? Giovedì 20 maggio è arrivata nella notte l'ok del Senato Usa alle nuove regole per la finanza: certo, il testo dovrà uniformarsi con quello della Camera; certo, i dettagli non sono ancora definiti; tuttavia Wall Street, scesa nell'intraday sul dato del Superindice, ha poi chiuso in crescita (l'S&P 500 ha guadagnato l'1,5%), trainata proprio dai titoli finanziari. Se la riforma fosse così "storica" come molti hanno affermato i listini avrebbero dovuto soffrire un po'. Invece, niente.

A ben vedere, è Basilea III che, al fine di tutelare giustamente la solidità del sistema bancario, desta preoccupazione agli operatori e influenza le Borse. Il direttore generale di Bnp Paribas, Jean Laurent Bonnafé, ha fatto i conti della riforma: 400 miliardi di euro di nuovo capitale per le banche e 1.500 miliardi di nuova raccolta con l'emissione di titoli a medio e lungo termine. «Non vorrei che la cura uccidesse il paziente», è stato il commento dell'economista Rainer Masera. Molte affermazioni, come quella di Bonaffé, vanno prese con le pinze, visto che nessuno può essere contento per misure che comprimono i margini del proprio business. Al di là delle polemiche, però, è indubitabile che il comparto bancario, e quindi anche la Borsa, è sensibile a Basilea III. Un esempio di una carta che conta al gioco della Borsa.

La tecnologia è "fante" di denari
«I programmi di trading automatizzato standardizzati ormai sono moltissimi - dice Federico De Vita, quant analist di Acacia management -. E la loro influenza è molto forte». In questo periodo di scollegamento dei prezzi con i fondamentali, infatti, molte strategie d'investimento sono definite grazie all'individuazione di livelli di resistenze e supporti. Accade spesso che un unico supporto sia indicato come lo stesso livello di stop-loss da migliaia e migliaia di programmi. Se avviene la "rottura" partono le vendite, indipendentemente dalla sensatezza dell'operazione. Il risultato? «Si amplifica all'ennesima potenza l'effetto di una singola strategia», sottolinea De Vita.

Insomma, la tecnologia - perfetta per il mondo della finanza in quanto i beni finanziari sono immateriali e possono essere facilmente trasformati in bit digitali - ha un impatto notevole sui mercati. È una carta con figura. Un fante di denari che può essere sfruttato in maniera positiva o negativa. «Negli Usa - ricorda De Vita - c'è, per esempio, un quant fund (Medallion, ndr) che basa gli investimenti su modelli matematici di previsione del prezzo di un titolo in un arco di tempo di tre, quattro secondi». L'idea è di sfruttare tutti i dati delle serie storiche di volumi, prezzi, volatitità ( e chi più ne ha più ne metta) , accorciando il più possibile il periodo in cui le variabili esogene non considerate possono incidere sulla previsione. «Questo fondo è gestito solo da scienziati e matematici puri - specifica De Vita -, e i suoi risultati sono notevoli, anche in questi anni di crisi».

Per uno che va bene, però, ce ne sono molti che tracollano o fanno tracollare i mercati. L'uso eccessivo della leva, un pricing errato basato su modelli matematici pensati male può causare non pochi danni. Quanti hedg-fund erano short sul titolo Volkswagen nella primavera 2008, sfruttando valori di prezzo definiti da modelli algoritmici? Tanti. «Ricordo - dice De Vita- che, a causa di una variabile esogena non considerata (la battaglia a suon di take over con Porsche, ndr), il titolo iniziò a decollare. Chi era short, spesso anche con una forte leva, si è trovato a dover vendere all'impazzata, perdendo così una barcata di soldi».

Tassi d'interesse ufficiali? Il "2" di picche
Un tempo si monitorava il singolo "batter di ciglio" dei banchieri centrali. Parlavano poco, soprattutto in Europa. Un'inflessione della voce un po' bassa? «È certo! La visione sui mercati è pessimista», era il commento. Tutto questo, adesso, è alle spalle. I banchieri centrali puntano molto sulla comunicazione, parlano spesso al mercato. Una politica indotta anche dal fatto che le decisioni sui tassi di riferimento hanno, in questo momento, poca rilevanza. «Si sa - afferma Maila Bozzetto, esperta di reddito fisso della società indipendente Imac2 - che rimarranno su questi livelli per parecchio tempo. Ciò che importa , invece, è la liquidità: questa, in particolare in Europa, cerca un investimento che sia maggiore all'1% del Refi, distribuendosi tra il mondo del reddito fisso e l'equity. Forse, dopo il rally dello scorso anno, potremmo assistere ad un ritorno di fiamma dei corporate bond». Per quanto, la mancanza di fiducia che attanaglia i mercati può indurre a rimanere liquidi: «Con una conseguente crescita dei depositi bancari? Non lo escludo», dice la Bozzetto.

La fiducia è "fante" di cuori
«Lack of confidence», dicono gli inglesi. Mancanza di fiducia. Un aspetto psicologico che, negli anni della crescita, era stato messo in un angolo. Sepolto dal pensiero dominante del mercato razionale, delle scelte dettate dalla massimizzazione dei profitti. Poi, però, è arrivato il credit crunch: la liquidità pompata dalle banche centrali non ha "oliato" il mercato interbancario. Per quale motivo? Semplice: le banche, invece di usare quei soldi per prestarseli vicendevolmente, se li tenevano ben stretti. Non si fidavano l'una dell'altra, c'era «lack of confidence». La fiducia, oggi come allora, gioca un ruolo essenziale sui mercati. Bisogna conquistarsela passo dopo passo. Esprimere ottimismo gratuito, non giustificato dalla realtà delle cose, è un boomerang, soprattutto quando i nodi vengono al pettine. Lanciare allarmi avventati, magari per spingere riottose coalizioni a prendere scelte impopolari, può rendere ancora più costosa la scelta da prendere.

La speculazione è un "fante" di picche
C'è chi sostiene che non esiste e che non bisogna dare caccia all'untore. Qui non si vuole aprire la polemica, ma "dare" alcuni numeri per riflettere. Al 30 settembre 2009, negli Stati Uniti, il 96% dei contratti swap (in cui sono ricompresi i Credit default swap) era intermediato (come già indicato da questo foglio elettronico) da sole cinque banche: JpMorgan, Bank of America, Goldman Sachs, Morgan Stanley e Citigroup. Il dato, pubblicato dall'Office of the comptroller of the currency, è riferito ad un valore nominale di oltre 172 trilioni di dollari. Una cifra incredibile che, se ovviamente nulla dice rispetto all'operatività di queste banche, la pulce nell'orecchio sulla possibilità di trading "mirati" con i Cds la mettono. Insomma, di recente si è parlato della possibilità che sui Cds siano state svolte operazioni speculative con la conseguenza che le loro quotazioni siano diventate meno attendibili. E non si tratta di un problema da poco: questi contratti swap, infatti, vengono usati dal mercato per capire lo stato d'insolvenza degli stati. Se le loro quotazioni possono venire "alterate", la questione si pone.

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