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Non è una Borsa per cassettisti

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Questo articolo è stato pubblicato il 29 marzo 2010 alle ore 13:52.
L'ultima modifica è del 09 giugno 2010 alle ore 15:40.

C'era una volta (e c'è in parte tuttora) il cassettista. Un signore che comprava azioni, possibilmente di quelle blasonate e di antico lignaggio, le metteva sotto il materasso e non ci pensava più. Ogni anno si portava a casa una cedola più o meno ricca e questo bastava a fargli dormire sonni tranquilli. Un'immagine, o meglio uno stereotipo ormai andato in pezzi. Frantumato dagli eventi. Colpa della Borsa e delle sue giravolte brusche e repentine che nell'ultimo decennio sono state il tratto distintivo dei mercati azionari.

Comprare azioni e tenerle nel cassetto ha infatti senso se il movimento dei listini è lineare e tende nel tempo verso l'alto. Gli ultimi due lustri hanno visto in scena un copione opposto. Oggi Piazza Affari, nonostante il rimbalzo violento avviato dal marzo 2009, è tornata a valere i livelli del lontano '98. Un decennio andato letteralmente in fumo, di fatto azzerato come se non fosse mai esistito per i grandi e piccoli investitori. E la piccola piazza milanese è in buona compagnia. Pressoché in tutto il mondo avanzato l'investimento nelle Borse si è rivelato un boomerang. Dalla fine del '99 la Borsa di New York ha perso in media lo 0,5% annuo. E il calcolo tiene conto dei dividendi incassati pari a una media dell'1,8% annuo. In Europa le cose sono andate ancora peggio con l'indice Stoxx che nei due lustri ha perso il 34%, pari a un -4% annualizzato.
Fanalino di coda la nostra piazza borsistica con il Comit che ha chiuso il decennio con un -46%. Solo grazie ai dividendi incassati negli anni dagli azionisti, la perdita si riduce al 26 per cento. In mezzo a questa Caporetto delle azioni è successo di tutto: prima la rapida ascesa della bolla hi-tech, la successiva caduta durata fino al 2003. Poi il quadriennio magico (e i grandi guadagni) fino al 2007. Infine è questa è storia recente la crisi del credito a livello mondiale che ha rischiato di vedere l'implosione dell'intero sistema finanziario mondiale e la successiva riscossa. È quindi davvero questione di tempo e di azzeccare i cicli violenti al rialzo e ribasso di listini e azioni. Si pensi alle alterne fortune degli investitori.

Chi avesse comprato UniCredit solo 12 mesi fa, quando le quotazioni erano al lumicino, avrebbe conseguito un risultato positivo dell'85 per cento. Lo stesso acquisto effettuato 6 mesi fa, vedrebbe il nostro investitore sotto del 9%. Senza dimenticare che siamo ancora oggi distanti del 63% dai valori del titolo di tre anni fa. E che dire di Generali, classico titolo da cassettista? Il Leone di Trieste è sopra del 40% a un anno, ma un investimento di lungo periodo conta solo perdite: si va dal un meno 35% a dieci anni che, mitigato dalle cedole, diventa un -24 per cento. A tre anni il conto è ancora assai salato con un terzo del capitale eroso dalle perdite.

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Tags Correlati: Borsa di Milano | Borsa Valori | Eni | Intesa | Mercato azionario | Snam | Telecom | Wall Street

 

Occorre spingersi al traguardo dei vent'anni per riconquistare, tra le blue chip più note, valori soddisfacenti per un investimento in azioni. Intesa a 20 anni traccia un +355% e UniCredit un +258 per cento. Ma vent'anni sono un tempo infinito. Tra le regine di Piazza Affari spicca di fatto un unico grande vincitore sulla distanza. È l'Eni. La compagnia petrolifera ha reso a dieci anni un +78% e un +186% cedole comprese. Hanno tenuto bene anche utility come Snam Rete Gas e Terna.

Che significa tutto ciò? Tre cose. La prima è che il decennio passato dimostra che la vecchia regola per la quale la Borsa è il luogo ideale per veder crescere il proprio capitale nel lungo periodo non è più vera. Sarà stato un decennio particolare, ma nulla fa supporre che i prossimi dieci anni saranno meno tempestosi per i listini. La seconda è che le cedole aiutano, ma non risolvono. Comprare un titolo per il dividendo non mette al riparo dagli scivoloni protratti sui prezzi che vanificano (come nel caso di Telecom Italia) ogni speranza di guadagno. La terza è che fare il cassettista non ha un gran senso. Meglio entrare e uscire da un'azione appena il guadagno reale lo giustifica. Ma non bisogna essere ingordi. Spiega un banchiere di lungo corso: «Quando rende un titolo di Stato decennale in media storica? Diciamo il 4-5 per cento. Ebbene da un'azione ci si aspetta per compensare il rischio un rendimento doppio. Quando si ottiene un 10% all'anno dall'investimento in Borsa occorrerebbe accontentarsi e vendere soddisfatti». Un consiglio di buon senso. Ma ancora poco praticato da chi cerca rendimenti mirabolanti e si ritrova spesso con un pugno di mosche in mano.