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PLUS24 / Su 569 entrate a Piazza Affari ne restano 272

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Questo articolo è stato pubblicato il 29 marzo 2010 alle ore 13:51.
L'ultima modifica è del 09 giugno 2010 alle ore 15:47.

Quando le aziende si quotano in Borsa le aspettative di venditori e compratori sono molteplici e a volte in conflitto. Chi colloca le azioni in teoria non dovrebbe puntare solo a massimizzare l'incasso (tranne nel caso della way-out dei fondi di private equity), ma a individuare un prezzo equo che lasci spazio per una ulteriore remunerazione per soci di maggioranza e minoranza. Chi invece aderisce, o punta al mordi e fuggi (l'unica strategia che funziona durante le bolle stile new economy), o assume un'impostazione da cassettista (o quasi) e spera che nel tempo arrivino rivalutazione e dividendi.

C'è una ricca letteratura accademica (Tim Loughran e Jay Ritter negli Usa, Giancarlo Giudici e Stefano Paleari in Italia) che – tra mille distinguo – mostra che le matricole di Borsa in media fanno peggio del mercato negli anni successivi al collocamento. Solamente questo dovrebbe spingere a molta cautela nell'avvicinarsi alle Ipo. Ma c'è dell'altro.
L'idea di investire in un'azienda nel momento in cui passa da private a public per poi dimenticarsi per anni delle sue azioni è totalmente insana. Le società che arrivano in Borsa finiscono per essere comprate, vendute, incorporate, ritirate dal listino. E talvolta falliscono, lasciando gli azionisti con un pugno di mosche in mano. Il volume «Indici e Dati» del l'Ufficio Studi di Mediobanca è illuminante al riguardo: leggendolo, si scopre che dal Dopoguerra a oggi ci sono state 569 società che in vari modi (collocamenti, scissioni, dual-listing, promozioni dagli altri mercati, ammissioni d'ufficio) sono approdate al listino principale. Di queste, ne sono rimaste 272. Le altre sono state appunto interessate da eventi straordinari più o meno piacevoli, che portano a concludere che in più della metà dei casi, le società di cui i risparmiatori diventano azionisti ricadono in tre principali categorie: o cambiano fisionomia (ad esempio: chi era azionista di Nuovo Banco Ambrosiano, La Centrale, Banca Commerciale Italiana, Banca Cattolica del Veneto, Fiscambi Holding, Banco Lariano, Banco di Napoli, Imi, Sanpaolo, ora è socio di Intesa Sanpaolo, che per altro contiene anche le attività della mai quotata Cariplo); o vengono ritirate dal listino, spesso a un prezzo largamente inferiore a quello di Ipo (Italdesign-Giugiaro, FMR-Art'è, Anima, Marazzi, Lavorwash e così via); o finiscono insolventi (Parmalat, Giacomelli, Finmatica, Finpart e altre).

Ben inteso: fusioni e acquisizioni non necessariamente distruggono valore e possono dare risultati profondamente diversi anche all'interno di uno stesso gruppo. Elaborando i dati dell'Ufficio Studi Mediobanca, si scopre che chi investì cento euro in azioni del Credito Italiano all'inizio del 1994 (ossia poche settimane dopo la privatizzazione), oggi avrebbe in tasca titoli UniCredit per un controvalore di 246 euro. Viceversa, chi avesse investito in quello stesso periodo cento euro in azioni di Banca di Roma, oggi possiederebbe titoli UniCredit per un valore di 77 euro. Quel che è certo è che la grande ondata di fusioni e acquisizioni intervenuta dagli anni 90 in poi è stata una manna per investment bank, advisor e avvocati d'affari vari.

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Vale anche il caso opposto: ci sono società che hanno mantenuto coerentemente la loro autonomia e il loro business (pur cambiando proprietari), ma anche la capacità di far perdere soldi ai loro azionisti. Snia sbarcò a Piazza Affari nel lontano 1920. A chi vi avesse investito cento euro nel 1968, oggi resterebbero cinque euro. Chi ha detto che le azioni premiano sempre nel "lungo periodo"?