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Finanza e Mercati In primo piano

In attesa della nuova iniezione di liquidità della Fed Australia e India alzano i tassi. Bce prudente

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Questo articolo è stato pubblicato il 02 novembre 2010 alle ore 12:26.

Di qui i tassi compresi tra lo zero e l'1 per cento; dall'altra parte il costo del denaro tra 4,75 e 5,25 per cento. Di qui la paura di deflazione; dall'altra parte il timore del surriscaldamento dell'economia. Di qui le banche centrali che affrontano la crisi; dall'altra parte il Pil che corre veloce. Due facce della globalizzazione che, però, spesso non sembra tale.

La banca centrale dell'Australia ha sorpreso un po' tutti alzando i tassi d'interesse: il costo del dollaro australiano è salito al 4,75 per cento. Motivo? «Nel medio termine - dice Glenn Stevens, il governatore aussie - il rischio è che parta l'inflazione. Così, abbiamo deciso per la stretta». Un po' lo stesso pensiero del collega Duvvuri Subbaro, presidente della Reserve Bank of India. Il governatore della banca centrale indiana, dopo che ieri il ministro delle finanze aveva denunciato le preoccupazioni per «il continuo rialzo del costo della vita», ha varato la manovra di politica monetaria: il tasso di riferimento è salito al 6,25%; quello per i depositi delle banche presso la riserva centrale è cresciuto al 5,25 per cento.

Subito dopo le due manovre, c'è stata la reazione dei mercati: sul fronte australiano, il dollaro di Camberra, sul mercato londinese, si è apprezzato dell'1,2% sul dollaro ( da 98,7 a 99,9 dollari); in quel di Bombay, invece, la differenza di rendimento tra i decennale indiano e quello americano è salito a 551 punti base (il massimo, di 5,67%, è stato il 20 ottobre scorso a fronte di una media del 3,17 per cento). Un trend che non stupisce. «I flussi finanziari si spostano in cerca di rendimento -dice Brian Jackson, strategist di Royal bank of Canada -. Alzando i saggi d'interesse ufficiali, gli asset australiani e indiani si apprezzano. Il problema per le banche centrali dell'Asia e del Pacifico è quello di trovare l'equilbrio tra due opposte esigenze: dal un lato contrastare il surriscaldamento dell'economia, dall'altro, evitare che la divisa interna salga troppo, schiacciando l'export».

Insomma, guardando alla Federal reserve americana...è un mondo rovesciato. Helicopter Ben Bernanke, tra un falco e una colomba, vuole iniettare dollari nel sistema. In che quantità dovrebbe deciderlo mercoledì (attorno alle 19 ora italiana). La sua speranza? Un mix di convinzioni: continuare a pilotare la svalutazione del dollaro che tanto fa bene al "made in Usa"; contrastare il rischio di deflazione; innescare un po' d'inflazione, nella speranza, che Mr e Mrs Smith, timorosi di perdere potere d'acquisto, siano invogliati a consumare e spendere; sperare nel l'effetto del motiplicatore keynesiano per far ripartire gli investimenti.

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Tags Correlati: Andamento dei tassi | Asia | Australia | Barack Obama | Bce | Ben Bernanke | Brian Jackson | Canada | Duvvuri Subbaro | Fed | Glenn Stevens | Inflazione | Jean Claude Trichet | Jim Rogers | Reserve Bank of India | Royal bank | Smith | Wall Street

 

Più prudente la posizione della Bce: la scorsa settimana, per la terza volta consecutiva, non ha acquistato bond governativi cosicché oggi drenerà dal mercato altri 65,3 miliardi di euro. Insommma, zitto zitto Jean Claude Trichet continua sulla sua strada di uscita dalle politiche ultra espansive.

Tornando, invece, alla Fed molti rilevano che i suoi obiettivi hanno una grande incognita. Al di là delle solite e un po superflue polemiche tra chi vuole l'austerity e chi invoca più liquidità, il meccanismo non è detto possa funzionare così linearmente. È stato già detto ma è meglio sottolinearlo: nella fase più critica del credit crunch, tutti i bei dollaroni fruscianti buttati nel sistema non "entravano in circolo". Le banche se li tenevano ben stretti: li usavano per rafforzare il proprio patrimoio; oppure per finanziare gli acquisti di Treasury a lunga che, poi, riconsegnavano alla Fed quale garanzia della liquidità stessa. Un circolo vizioso che, di fatto, ha impedito il totale dispiegarsi sull'economia reale degli effetti espansivi sperati da Bernanke. Adesso, come allora, il rischio c'è e non si vede perché la situazione dovrebbe cambiare.

Jim Rogers, su questo sito, ha denunciato più volte il rischio della bolla sui titoli di stato americano con scadenze lunghe. Prezzi troppo alti sul decennale e sul trentennale schiacciano i rendimenti e rendono meno salato il conto alle casse, già disastrate, dell'America. Ma, prima o poi, gli investitori inizieranno ad allontanarsi dalla parte lunga della curva dei rendimenti, che giocoforza risaliranno. Bernanke lo sa bene: la sua idea, infatti, è di andare in acquisto di titoli sul lungo periodo (e di conseguenza dare soldi al sistema); tuttavia, proprio il suo muoversi ha indotto il mercato a pensare che potrebbe ripartire l'inflazione. Risultato? I grandi istituzionali hanno iniziato a vendere il trentennale (il suo rendimento è salito di 30 punti base) e guardano a Wall Street o ad altri asset per i loro investimenti. Anche i rendimenti negativi dei Tips (bon dindicizzati all'inflazione) la dicono lunga sulle attese degli operatori per ilsurriscaldamento dell'economia. Insomma, si tira da una parte per raggiungere un risultato; e, allo stesso tempo, questo tirare da una parte produce l'effetto contrario di spingere nell'altro senso.

Magari, come ormai accade da tre anni, questo scenario cambierà nel giro di pochi giorni. Tuttavia amplificare i macro-movimenti degli asset finanzari (leggi accompagnare verso il basso il dollaro) è abbastanza facile; contrastarli, come sa bene la banca centrale giapponese, è molto più dura. Bisognava andare a toccare le cause strutturrali della crisi: il presidente Barack Obama, con la riforma di Wall Street, ha rinunciato a farlo.


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