Questo articolo è stato pubblicato il 10 novembre 2010 alle ore 08:16.
A tutta liquidità. Per agevolare la ripresa economica, le banche centrali stanno provando tutte le cartucce. Come prima mossa hanno ridotto ai minimi termini (in Europa), quando non azzerato (negli Stati Uniti e in Giappone) i tassi di interesse. Dopodiché, esaurita la leva costo del denaro, si è passati all'acquisto di titoli di Stato. L'obiettivo? Uno solo: immettere liquidità nel sistema per sostenere i corsi azionari ed evitare una pericolosa spirale deflazionistica (prezzi in calo) nella speranza che l'economia riprenda a girare regolarmente.
L'ultima manovra, in tal senso, è stata annunciata pochi giorni fa dalla Federal Reserve, la Banca centrale degli Stati Uniti, che ha deciso di iniettare nel sistema finanziario 600 miliardi di dollari attraverso l'acquisto di titoli di Stato entro il secondo trimestre 2011. Si tratta della seconda operazione di "quantitive easing" dopo quella conseguita tra il 2008 e il 2009, per complessivi 1.725 miliardi di dollari di liquidità. Senza dimenticare le numerose iniezioni di liquidità della Banca centrale europea, che ha aperto a favore delle banche il rubinetto dei pronti contro termine all'1 per cento.
Quali sono i rischi? Questo flusso di capitali in circolazione potrebbe rivelarsi solo un salvagente momentaneo. Il timore sul lungo termine è che questa enorme massa di liquidità, unita al costo del denaro ai minimi storici, crei i presupposti per altre crisi, foraggiando la speculazione e creando nuove bolle finanziarie. Per capire se dietro questa tornata espansiva si possano nascondere i germi di una nuova instabilità finanziaria, abbiamo provato a fare un check-up dei mercati, obbligazionari e azionari.
La bolla sui Treasuries Jim Rogers, analista e commentatore molto ascoltato ha più volte lanciato l'allarme: «I prezzi dei bond con scadenze meno brevi sono troppo alti, prima o poi vedremo dei problemi su queste emissioni». L'analisi è abbastanza semplice: è vero che, con i tassi sul breve periodo a zero, la curva dei rendimenti è comunque inclinata; tuttavia, il rendimento per i bond a lunga scadenza è artificialmente tenuto basso. Il motivo? In primis, perché in questo modo il Tesoro americano paga meno interessi; poi, perché sussite un meccanismo un po' perverso. La liquidità immessa dalla Fed, praticamente a costo zero, viene acquisita dalle grandi banche che la usano per comprare bond a lunga scadenza, con rendimenti maggiori (il cosiddetto carry trade).
Così facendo, lucrano sugli spread. L'effetto è che il prezzo dei titoli rimane alto e i rendimenti bassi. Senza dimenticare che così i bond acquisiti sono dati in garanzia dalle banche alla stessa Federal Reserve per ottenere i prestiti. Non proprio un meccanismo virtuoso. Il rischio? Con il deficit americano in forte rialzo il timore è che il premio al rischio non sia controbilanciato dal rendimento. A qualcuno prima o poi verrà l'idea di vendere: il mercato lo seguirà creando il classico effetto valanga?
La bolla dei mercati emergenti Dai minimi di marzo 2009, dati Standard & Poor's, l'Msci Emerging market index, che misura l'andamento dei principali mercati emergenti, è salito di oltre il 90% (consulta il grafico storico). La performance è nettamente superiore alla media delle Borse di tutto il mondo: l'Msci World dal primo marzo 2009 ha guadagnato il 60%, mentre l'americano S&P500 segna +75%. Nello stesso periodo la Borsa thailandese ha guadagnato il 148% e quella cinese il 106%. Tra gli altri Bric (le maggiori economie emergenti) i rally borsistici sono impressionanti. Sempre rispetto ai minimi di marzo 2009 in Brasile il balzo è stato del 151%, in Russia del 118% in India del 154%. Dopo l'annuncio della maxi iniezione di liquidità da parte della Fed l'indice di riferimento di quest'ultima (Bse sensex) ha toccato un nuovo record.
Rialzi giustificati? C'è chi ritiene di sì, anche alla luce dei fondamentali economici che parlano di una crescita sostenuta di queste economie. In primo luogo in Cina, il cui Pil per il 2010 è stato recentemente rivisto al rialzo dal Fondo monetario internazionale. Ma il sospetto di molti è che gli emergenti siano decisamente sopravvalutati: una bolla favorita dalle politiche monetarie ultra-espansive delle banche centrali occidentali. Gli afflussi di capitale in questi mercati quest'anno hanno raggiunto quota 68 miliardi di dollari, nell'azionario, e 46 nell'obbligazionario, secondo i dati Epfr global. Questo trend è destinato a proseguire per questo non stupisce che una buona parte degli analisti sia rialzista sugli emergenti. Ma quali conseguenze potrebbe avere lo scoppio di una bolla di queste dimensioni? E cosa succederà quando Fed e Bce smetteranno di iniettare liquidità sul mercato o addirittura rialzeranno i tassi d'interesse?
Wall Street e la Borsa tedesca sono iper comprate? Dall'annuncio dell'ultima manovra della Fed l'indice Sp&500 ha guadagnato il 5% portandosi al top da agosto 2008. I valori della Borsa americana, a 24 mesi di distanza, si sono messi alle spalle il fallimento di Lehman Brothers. I presupposti perché il rialzo prosegua nei prossimi mesi non mancano: le statistiche giocano a favore. Dal 1939 il semestre dopo il mid-term è sempre andato bene. E poi, in quest'occasione, c'è anche la (parziale) vittoria dei repubblicani, l'ala politica preferita da Wall Street (favorevole a una salita al potere dei più abbienti che sono anche migliori investitori). Tuttavia, non mancano gli operatori che sostengono che le azioni del listino di New York sono entrate in una fase di "iper comprato" e che quindi sono restii a prendere posizioni lunghe su questo mercato.
Dallo stesso virus potrebbe essere affetta la Borsa tedesca. L'indice dei titoli guida, il Dax30, è quello che ha fatto meglio in Europa nell'ultimo anno, anticipando, non a caso la ripresa dell'economia tedesca, l'unica in questo momento ad avere una buona marcia. Nel 2010 ha guadagnato il 13,5% riportandosi sopra i livelli pre-Lehman. Negli ultimi due anni è cresciuto del 35 per cento.
Il dollaro debole e l'impennata delle commodities L'effetto principale delle manovre espansive della banca centrale americana è quello di svalutare il dollaro, cioè unità di conto del mercato delle materie prime. Questo aspetto è fondamentale per comprendere un'altra bolla innescata dall'enorme massa di liquidità immessa sul mercato dalle Banche centrali: quella sulle materie prime. Innanzitutto l'oro, bene rifugio per eccellenza, che ha toccato il record a 1.413,09 dollari l'oncia (non a caso il presidente della Banca Mondiale, Robert Zoellick, ha proposto di inserire il metallo giallo in un nuovo sistema di cambi internazionale).
In un anno l'indice Gold Afternoon Fix di Londra ha guadagnato circa il 30 per cento. Peraltro, come confermano i dati del World Gold Council, la domanda è prevalentemente di natura finanziaria. «Il maggior contributo alla crescita del prezzo dell'oro - si legge in un recente comunicato - si deve soprattutto alla domanda degli etf (exchange traded fund) cresciuta del 414% nel secondo trimestre di quest'anno. Secondo il guru Mark Faber si potrà parlare di bolla sull'oro quando questo diventerà un argomento di conversazione da bar. Questo sta forse già accadendo all'aeroporto bergamasco di Orio al Serio dove è stato recentemente installato un distributore di oro fisico da investimento (guarda il video).
Lo stesso fenomeno ha interessato altri metalli come il rame (l'indice S&P GSCI Copper Index mostra un rialzo del 31,9% rispetto al 5 novembre 2009) e l'argento (+42% il fixing di Londra). Il balzo è considerevole anche per altre materie prime non ferrose come il cotone che ha guadagnato in un anno oltre il 100% (tenendo in considerazione S&P GSCI Cotton Index) o il caffè (+44,8% il rialzo annuo dell'S&P GSCI Coffee Index).
E poi c'è il petrolio, la materia prima che fa girare il mondo. Come per le altre commodities, un dollaro più debole corrisponde a un aumento di prezzo. Al pari delle principali Borse, anche il petrolio viaggia ai massimi da due anni, attorno agli 87 dollari al barile.
Mutui americani, i subprime 2.0 Parlando di bolle, reali o potenziali, non si può non menzionare anche quella dei mutui negli Stati Uniti. Chi credeva che i subprime appartenessero ai libri di storia si sbaglia perché negli Stati Uniti sono in corso legali contro le principali banche (coinvolte anche le europee Hsbc e Ubs) in merito al collocamento di bond agganciati a mutui cartolarizzati, a pignoramenti eseguite con procedure automatiche (senza controlli). Se le banche dovessero perdere le cause potrebbero essere costrette a riacquistare i titoli derivati piazzati in modo poco trasparente. I mercati stimano danni potenziali per decine di miliardi di dollari.