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Questo articolo è stato pubblicato il 22 agosto 2011 alle ore 06:42.

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Davide Paolini
Chiamatelo come vi pare: "mangiari" di strada, spuntino al volo, boccone del baracchino. Ma per piacere non chiamatelo street food. La terminologia inglese, sempre più diffusa anche da noi, non traduce in modo adeguato l'espressione italiana "cibo di strada", perché si rifà a modelli alimentari anglosassoni che sono quelli frenetici, veloci e rapidi del fast food. In comune, di certo, c'è il richiamo alla strada come luogo deputato alla somministrazione nonché alla preparazione e cottura del cibo. Ma il cibo di strada italiano non può essere messo sullo stesso piano di hamburger, patatine fritte e hot dog, poiché per noi è un patrimonio di una cultura materiale in via di estinzione, un percorso gustativo fra i luoghi della memoria. È uno dei straordinari retaggi della nostra storia e delle nostre tradizioni. Non c'è territorio che non ne abbia, è il popolare che dai chioschetti o dai locali di porto entra nelle abitudini alimentari e sociali. Non sono prodotti demandati a un consumo frugale, sono veri e propri aggregatori, perché i luoghi del loro consumo hanno una funzione sociale: permettono agli individui di sedere e di mangiare gomito a gomito sulle panche, in terra, ai lati dei chioschi con la possibilità di dialogare.
Un'inaspettata condivisione del piacere e di un attimo sfuggente di convivialità. Si pensi al vociferare del mercato di San Lorenzo a Firenze, al caos della Vucciria o di Ballarò a Palermo, o ancora ai chioschi della vecchia Napoli. Al contrario, nel caso dello street food si tratta per lo più di un rito di consumo solitario, massificato, omologato che avviene in locali tristi, freddi e silenziosi.
Il cibo di strada è invece la palestra dello stomaco e della testa che mangia, poiché i suoi sapori non sono uniformati dalla globalizzazione dei gusti. Ci obbliga a scendere nei vicoli, nelle piazze, nei crocevia per imparare a gustare. È qualcosa di sfizioso, da assaporare senza comodità, in piedi, seduti in terra, senza tavolo o sgabelli. È il piacere atavico di afferrare con le mani un cartoccio chiassoso di sapore, appena sfornato, che si offre fuori orario, senza regole, clandestino.
La mappa del cibo di strada italiano è una fotografia nitida e dai colori vivaci di un Paese dalla grande ricchezza e stravaganza gastronomica, un'Italia un tempo povera che con prodotti modesti ma appetitosi ha conquistato i palati. Il lampredotto nella sua semplicità, poiché realizzato con l'ultima parte dello stomaco, miete vittime di golosi davanti ai pochi carretti dei trippai fiorentini. A Livorno è ancora possibile gustare «cinque e cinque»: torta di ceci condita con pepe servita in un panino morbido. È una variante della cecina, nonché della farinata ligure o fainà, di cui un tempo Genova offriva molte "sciamadde" dove poterla gustare. E se la porchetta ha invaso l'Italia con mezzi super attrezzati, diventando un cibo di largo consumo industrializzato, restano fra Lazio e Umbria ancora i veri artigiani che la preparano con la cottura a legna.
In Emilia Romagna accanto alla regina del cibo di strada, la piadina, trova posto una corte reale di tutto rispetto: il fritto misto, il tortello nella strada, il crescione, lo gnocco fritto, la torta fritta, la crescentina, la tigella, il borlengo.
Se poi ci si sposta nel Meridione, e in Sicilia in particolare, si potrà visitare la culla stessa del cibo di strada. Qui i profumi della terra si mescolano con quelli delle pietanze che vengono preparate all'aria aperta sui furgoncini oppure con gli odori che provengono da botteghe nascoste in vicoli stretti. Soprattutto nei mercati di Catania e di Palermo è difficile resistere alla tentazione delle varie specialità che qui come da nessun altra parte hanno antiche radici.