Ci sono otto regole, come nel Fight Club, nel mondo degli speakeasy. Prima regola: non parlate mai degli speakeasy. Seconda: cercate la parola d’ordine. Terza: non rivelatela a nessuno. Quarta: vietati i selfie e i post sui social. Quinta: l’eleganza è benvenuta, si intona con il décor, sempre ricercato. Sesta: è doveroso bere. Settima: si può conversare sia con il barman, sia con il vicino di tavolo. Ottava: se questa è la vostra prima volta, gustatevi l’esperienza come se fosse l’ultima, potrebbe esserlo.
Seguendo questo codice (non scritto e mutevole) ho visitato a Milano il 1930, uno dei tanti locali notturni sparsi in tutto il mondo che si ispirano a quelli clandestini nati durante il proibizionismo negli Stati Uniti. Per accedervi bisogna andare in pellegrinaggio in un altro paio di bar, conoscere i barman e farsi conoscere, ottenere la password e l’indirizzo.
Con la parola magica, ho superato l’esame del doorman, nascosto dietro a una finta porta, e visitato il locale. Dentro si respira un’aria di altri tempi. Il mobilio, le luci, la lista con cocktail dai nomi e dagli ingredienti alquanto bizzarri, il bancone con gli sgabelli di velluto, la musica jazz ricordano un’epoca passata; quella in un cui l’alcol era bandito in un’intera nazione. Anche al piano sottostante, dove tra nuvole di fumo e bottiglie di liquori pare si nasconda un fantasma, si ha la sensazione di fare qualcosa di proibito in un’epoca, dove invece tutto è concesso.
Aperto nel 2013, il 1930 vanta un successo fatto di discrezione, di passaparola, ed è frequentato da un pubblico eterogeneo e internazionale, over 30. Coppie, piccoli gruppi e clienti abituali, alcuni dei quali hanno l’onore di avere una targhetta con il proprio nome. I rumori della città lontani, il cellulare senza segnale: ci sono poche distrazioni in questo tempio della mixology recensito nel libro “Speakeasy. I locali più segreti al mondo” del giornalista Maurizio Maestrelli edito da White Star. Molti cocktail che si bevono ai nostri giorni, racconta l’autore, sono nati o si sono affermati proprio negli speakeasy. Quelli a base di gin, dalla qualità a volte scadente poiché miscelati con il “bathtub gin” fatto in casa nella vasca da bagno, come il French 75, il Gin Rickey (il cocktail preferito da Francis Scott Fitzgerald), il Mary Pickford (che prende il nome dalla famosa attrice) e il Bacardi cocktail con il rum importato illegalmente da Cuba.
Ma se durante i tredici anni del proibizionismo la qualità di quello che finiva nel bicchiere non era eccelsa, ora è esattamente l’opposto. Negli speakeasy moderni i barman esprimono ai massimi livelli l’arte della miscelazione, anche se per pochi e sceltissimi adepti. Ne è la prova il Paradiso di Barcellona, locale dalla doppia identità, pastrami bar di giorno e speakeasy di notte, eletto al 37° posto della The World’s fifty best bars, la classifica del meglio della mixology internazionale. Qui dietro al bancone, che si raggiunge dopo aver attraversato la porta frigorifera, c’è il bartender italiano Giacomo Giannotti, miglior mixologist di Spagna nel 2014.
Nel libro di Maestrelli ci sono una quarantina di locali, che esercitano nella penombra e spesso nel sottosuolo. Potrebbe dunque esistere un tunnel sotterraneo che collega quello di Hong Kong con quello di Chicago, e Montreal con Milano. Magari c’è davvero, o forse è una storia di fantasmi…
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