Pochi sanno che gli italiani sono tra i maggiori appassionati di sake in Europa. La notizia che lo scorso ottobre l'Italia
aveva superato la Gran Bretagna, divenendo il secondo più grande importatore di sake d'Europa a quantità, non è però passata
inosservata dagli addetti ai lavori. Al punto che c'è chi cerca di riprodurre il celebre vino giapponese anche entro i nostri
confini.
Ricavato dal riso, il sake (senza accento) è prodotto dalla fermentazione di un microrganismo (koji) e di lievito (kobo).
Il suo contenuto alcolico può variare dal 13 al 16%. In Giappone il sake esiste da duemila anni, in Europa ha cominciato ad
essere presente vent'anni fa, ma solo negli ultimi tre anni è diventato veramente trendy, ovvero da quando si è cominciato
a lavorare culturalmente sul prodotto. Tanto da entrare stabilmente nelle drink list di molti locali gourmet. E così, quando
lo scorso autunno, Richard Geoffroy, lo storico chef de cave di Dom Pérignon, ha deciso di lasciare la celeberrima casa di
Champagne per dedicarsi a un progetto sul sake, il fatto è stato interpretato come un segnale che qualcosa stava cambiando
nel mondo degli alcolici e che da fenomeno “etnico” il sake stia diventando qualcosa di più.
Arrivato in Italia dapprima attraverso i locali tipici giapponesi, ben presto è passato a quelli gourmet dove gli chef lo
usano e lo interpretano in cucina, fino a - tendenza degli ultimi anni - delle vere e proprie “saketeche”, dove gustarlo da
solo o in accompagnamento a piccoli piatti.
«L'Italia – dichiara Marco Massarotto, fondatore dell'associazione Le Vie del Sake – ha triplicato i volumi di importazione
dal 2008 al 2018. Siamo secondi per quantità, ma solo quarti per valore. Vuol dire che, a differenza di altri Paesi europei,
dobbiamo ancora imparare a bere sake di qualità». Massarotto dal 2014 è anche il promotore del Milano Sake Festival che si
tiene ogni anno in settembre, ora evolutosi nel Japan Festival. Da poco è stato nominato rappresentante europeo dall'associazione
giapponese dei produttori di sake, con il compito di riportare tutto quello che accade nei vari Stati e di divulgare la cultura
di questa millenaria bevanda.
Contrariamente a quanto si pensa, il sake dà il meglio di sé negli abbinamenti con il cibo. «Ha delle straordinarie capacità
di combinazione con gli alimenti – ci svela Massarotto –, come il vino, da cui si differenzia organoletticamente: questo viene
da un frutto, l'uva, e ha quindi una base dolce-acida e interagisce con il cibo per contrasto. I sake, invece, che ha come
base l'umami (che è la quinto gusto giapponese, ndr), ha una base di dolcezza e sapidità e agisce per complementarietà». Ma
soprattutto non è tutto uguale. Ci sono, infatti, i sake più delicati che si accompagnano bene con i pesci, dai crudi ai grigliati,
con le verdure, il parmigiano, il prosciutto crudo; i sake più corposi, invece, che stanno bene con le carni grigliate, gli
stufati e le zuppe; i sake più rari, come i non filtrati e non pastorizzati, che si prestano ad abbinamenti arditi, come quello
con il gorgonzola e i formaggi erborinati; i sake invecchiati che prendono il classico sentore di mandorla e albicocca passita
e che si armonizzano con il foie gras e i paté. Per terminare con quelli da fine pasto o da “meditazione”.
E come per il vino, anche il sake necessita di persone esperte che lo sappiano valorizzare. «Si va diffondendo sempre più
la figura del sake sommelier – spiega Lorenzo Ferraboschi, titolare di Sake Company (azienda di distribuzione di sake) e di
Sakeya (bar, ristorante e shop dedicato al sake) nonché responsabile italiano della Sake Sommelier Association (SSA) –, un
professionista sempre più richiesto dai ristoranti gourmet e di alto livello». Per questo Sake Company ha stabilito una collaborazione
con la prestigiosa Sake Sommelier Association SSA, il principale ente internazionale per la formazione e certificazione dei
Sake Sommelier al di fuori del Giappone, e offre in Italia l'unico corso di Sake Sommelier Certificato e riconosciuto in tutta
Europa. Ha la durata di tre giorni con esame finale ed è la principale certificazione internazionale dedicata alla conoscenza
del sake. Una volta ottenuta questo primo attestato, si può accedere al corso Avanzato, riservato a un gruppo ristrettissimo
di sole 10 persone e che si tiene in Giappone per la durata di 8-9 giorni, direttamente nelle cantine di produzione.
Il successo del sake in Italia ha fatto scattare la scintilla anche per sperimentazioni e contaminazioni nostrane. L'ultimo
nato è Nero, un prodotto al 100% made in Piemonte, frutto dell'incontro tra il riso nero de “gliAironi” e la mixology del
locale Affini e della scuola per barman EvHo. «Nero nasce dalle risaie vercellesi e dai luoghi della miscelazione torinese.
Non vuole essere un'imitazione del prodotto giapponese, ma una celebrazione delle eccellenze Piemontesi», chiarisce Gabriele
Conte, titolare dell'azienda risicola gliAironi. La base, infatti, è il riso nero integrale Penelope dell'azienda vercellese.
Una varietà autoctona caratterizzata dalla presenza di antociani, da cui il colore scuro, con una profumazione fruttata e
un gusto intenso che vengono trasmessi al prodotto finale. Questo “sake” italiano, comunque, prende soltanto ispirazione dalla
tradizione orientale per poi cercare tutta un'altra strada: il processo di fermentazione, infatti, avviene grazie ai lieviti
della birra. «Un omaggio agli storici birrifici piemontesi che, a inizio ‘900, hanno fatto di Torino una delle capitali europee
di questa bevanda». Le contaminazioni però non finiscono qua. Nero prende a modello anche un'altra specialità torinese come
il vermut, liquore considerato per anni “di nicchia” ma tornato recentemente alla ribalta, da cui si ispira per la fortificazione,
l'incremento cioè del grado alcolico attraverso l'aggiunta di alcool, e per l'aromatizzazione, grazie all'utilizzo delle principali
erbe botaniche, come artemisia e achillea, che insaporiscono il vermut stesso. «Il risultato finale – ne conclude Conte –
è uno “spirito” innovativo, che punta a far incontrare le diverse culture rispettandone le differenze ed esaltandone le similitudini:
rotondo e sapido al palato come un sake, ma anche aromatico e speziato e con una nota finale di vaniglia tipica del vermut».
Quattro indirizzi per il sake
Sakeya (via Cesare da Sesto 1, Milano) vanta la cantina di sake più grande d'Europa. Aperta nel dicembre 2016 da Lorenzo Ferraboschi e Maiko Takashima, fondatori di Sake Company, è la prima “House of Sake”
italiana. Un progetto che può vantarsi del patrocinio delle prefetture giapponesi. Nella carta dei sake gli immancabili classici
sono accompagnati da proposte spumantizzate (happoshu) con metodo charmant e champenoise, da etichette riserva, invecchiati
in legno di cedro (koshu), affinati in botte (taru zake), non filtrati (nigori sake) e non diluiti (genshu). Un lavoro di
ricerca costante per offrire anche prodotti di difficile reperibilità come il nama sake (non pastorizzato) o il Shinshu (sake
novello).
Saketeca Go (viale Piave 5, Milano). Situato nel centro di Milano, è il primo locale del suo genere in Italia, capace di farvi vivere
in prima persona la tradizione giapponese del sake. Atmosfera informale e rilassata, in cui acquistare o assaggiare uno dei
tanti sake della carta. Dal Nihon Shu (letteralmente “vino di riso”), al Shochu, distillato di patate, riso, canna da zucchero
e orzo, all'Umeshu, distillato a base di ume, frutti giapponesi.
Kanpai Milano (via Melzo 12, Milano) ha aperto nel 2018. Un'autentica izakaya giapponese (un locale informale e popolare dove si beve sake).
Una carta di sake per intenditori e il cibo è lo stesso che si può mangiare per le strade di Tokyo.
Sake Bar Akira (via Guglielmo Calderini 1, Roma), nato dal successo del celebre Ramen Bar di Akira Yoshida è un sake bar, dove gustarlo anche
miscelato, con una drink list da una decina di cocktail, e una cucina d'accompagnamento
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