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Questo articolo è stato pubblicato il 01 maggio 2012 alle ore 06:47.

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È una zavorra per tutti. Perché inceppa l'economia. Ma in una congiuntura complicata come quella attuale c'è un'aggravante: i crediti Iva non erogati dallo Stato alle imprese stanno diventando una palla al piede soprattutto per le aziende e più dinamiche, quelle che di fronte alla crisi e alla debolezza della domanda interna hanno reagito cercando nuovi mercati o aumentando l'export.
Sono proprio i settori che esportano di più, insieme all'alimentare, ad accumulare i crediti più importanti nei confronti del Fisco. Proprio quelle imprese che invece meriterebbero un sostegno perché hanno accettato la sfida dei mercati globali e contribuiscono a tenere in piedi l'economia del Paese. Uno dei tanti paradossi italiani che si trascinano, fino a diventare insostenibili.
Succede nell'aggrovigliato sistema fiscale che chi vende direttamente a clienti esteri (nell'Unione europea o fuori dalla Ue non fa differenza) non incassa l'Iva ma può compensare l'imposta sui propri acquisti di beni o servizi (non degli immobili) nei limiti del fatturato estero realizzato nell'anno precedente. Un meccanismo abbastanza semplice che si applica però solo per la quota di export realizzata direttamente con clienti esteri.
Per le esportazioni che passano invece attraverso un intermediario italiano la compensazione non è prevista. Così si forma il credito che può essere a sua volta compensato con le imposte che l'impresa deve versare al Fisco, ma solo fino al tetto di 516mila euro all'anno. «Un importo anacronistico - sottolinea Alberta Marniga, imprenditrice bresciana della Euroacciai - fissato quando c'era ancora la lira». Non a caso equivale giusto giusto a un miliardo di vecchie lire. Un tetto fermo da quindici anni, dunque, da quando è stata introdotta la compensazione.
«Il tetto deriva dall'incapacità cronica dell'amministrazione di evitare le frodi» spiega un commercialista che sottolinea come spesso le compensazioni siano state utilizzate per realizzare «frodi micidiali ai danni dello Stato». Ma questa non è una buona ragione per generalizzare e colpire in modo indiscriminato tutte le imprese. «Il contorto sistema dei rimborsi alimenta attività malavitose ed illegali come le false richieste di rimborsi e che finiscono per aggravare una situazione già disastrosa» osserva Massimiliano Mapelli, dell'Agenzia debiti, una società di consulenza legale per famiglie e piccole e medie imprese, nata da poco in Italia sulla scia dell'esperienza anglosassone.
C'è un provvedimento che autorizza il ministero dell'Economia a portare a 750 mila euro il tetto delle compensazioni annuali. Fu chiesto a gran voce e ottenuto dalle imprese pochi anni fa. «La beffa - spiega Alberta Marniga - è che il tetto non è mai stato elevato ma le contropartite chieste alle imprese per aumentare l'importo sono diventate subito operative: il visto di conformità che bisogna allegare ad ogni richiesta di compensazione che costa 350 euro, e i termini più lunghi per presentare le richieste».
Ma questo sarebbe niente se i rimborsi dei crediti Iva nei confronti dello Stato arrivassero alle imprese in tempi ragionevoli. Invece l'assenza di fondi e in qualche caso anche la carenza di personale negli uffici territoriali dell'Agenzia delle entrate porta a situazioni limite come quelle segnalate da tanti imprenditori in questi giorni al Sole 24 Ore. O quelle che racconta Mapelli: «Abbiamo avuto tanti casi in cui gli imprenditori, nonostante fossero titolari di un credito Iva si sono visti notificare un'istanza di fallimento da parte di Equitalia per debiti Iva maturati in altri esercizi». Oltre al danno la beffa.
Il confronto con gli altri Paesi spesso è impietoso e mette le imprese italiane in posizione di svantaggio competitivo. «Nel Regno Unito, per esempio - conclude Mapelli - i rimborsi Iva vengono effettuati direttamente alle imprese, mensilmente, sulla base della dichiarazione del commercialista. In caso di debito, parte subito un'ispezione di verifica e per concordare con l'impresa le modalità di rimborso. Comportamenti truffaldini non sono ammessi: si finisce in galera».
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