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Questo articolo è stato pubblicato il 19 gennaio 2013 alle ore 10:29.
I tempi della giustizia e del conflitto tra poteri non sono quelli di un ciclo industriale, delicatissimo e strategico, come è quello dell'acciaio. La presunta "ragion pura" della dialettica istituzionale fa a pugni con la "ragion pratica" (molto pratica) di chi vuole fronteggiare una crisi galoppante e sta cercando di contemperare i sacri diritti alla salute e alla vita con quello altrettanto sacro al lavoro.
Per questo la spinta data ieri dal Governo per una pacificazione dell'area e per uno sblocco della situazione produttiva è un segnale positivo e dà la giusta attenzione a un'emergenza reale, denunciata ancora ieri proprio su queste colonne dal presidente di Federacciai, Antonio Gozzi. Governo e istituzioni locali, però, se avessero voluto evitare la facile accusa di aver fatto una "passerella elettorale", avrebbero dovuto scegliere la strada del decreto interpretativo per sbloccare la produzione Ilva.
Sono a rischio, oltre che migliaia di posti di lavoro, i redditi di gran parte delle famiglie tarantine, un quarto del prodotto regionale e quasi tutta la produzione di acciaio nazionale. Senza contare la possibilità che il caso Ilva diventi anche una bomba finanziaria per il sistema creditizio (si veda l'inchiesta di Paolo Bricco qui sopra). Soprattutto è in gioco la stessa idea che il mondo si fa e si farà dell'industria italiana. E della certezza di un diritto che si sta avvitando su se stesso in spire irrazionali che tutto disegnano fuorché certezze. Esattamente il contrario di ciò che serve per rassicurare e attrarre gli investitori (soprattutto se esteri).
Attendere che la Consulta (prima udienza il 13 febbraio) si pronunci sul conflitto proposto dalla Procura di Taranto sul decreto che sblocca la produzione a Taranto non consentirà di smaltire 1,7 milioni di tonnellate di materiale già prodotto e ancora in attesa di destinazione, fatto che rende impossibile la fabbricazione di nuovi coils o lamiere perché sarebbe impossibile stoccarli. Il veto giudiziario sta distruggendo valore – il prodotto "parcheggiato" vale un miliardo di euro – e oltre a renderlo inservibile, impedisce il normale ciclo di lavorazione tra Taranto e gli stabilimenti satelliti e mette a rischio migliaia di posti di lavoro e, probabilmente, altrettante buste paga già dal prossimo mese. Taranto è una polveriera sociale – come ha confermato ieri il ministro dell'Interno Anna Maria Cancellieri – e trasformarla in un ring elettorale sarebbe un clamoroso autogol per le istituzioni e gli stessi politici locali e non.
La vicenda Ilva è ormai il paradigma di una questione industriale italiana trattata finora senza strategia, con ottiche "micro" e localistiche, con deformazioni ad uso di campagne politiche più o meno circoscritte. La cortina fumogena del pregiudizio ideologico, tanto inquinante quanto i fumi delle tristi ciminiere dello stabilimento tarantino, ha tolto ogni razionalità a questa vertenza. E ha perfino indotto una vera "guerra tra poveri" tra i tarantini dell'area a freddo, in cassa integrazione e senza lavoro, e i loro colleghi liguri ai quali vanno, per la lavorazione finale, le bramme pugliesi.
La complessità del caso Ilva è di tutta evidenza e mal si presta alle semplificazioni usate finora a cominciare dalla magistratura: trattare il tema Taranto significa affrontare di petto la vocazione industriale presente e futura dell'Italia tutta. Significa scegliere come continuare a essere presenti in modo profittevole (come accade ora) nell'industria pesante; come si intende gestire per il medio periodo una piano serio di riconversione industriale; come si vogliono portare a termine le bonifiche indispensabili per certe produzioni di base che potrebbero riguardare oltre 30 siti in tutto il territorio nazionale; significa come posizionarsi in Europa da interlocutori credibili per ottenere attenzione e risorse per gestire la svolta verso uno sviluppo realmente sostenibile.
Il Governo ancora ieri si è affrettato a riconfermare la strategia già messa nero su bianco nell'Autorizzazione integrata ambientale esecutiva con decreto da settimane, ma la magistratura ritiene quel provvedimento lesivo del suo agire. La legge è legge non vale più. Ed è questo l'aspetto più paradossale. In questa terra di nessuno istituzionale reagisce un sindacato disorientato che oscilla tra manifestazioni locali rabbiose (come è quella della Fim o dei Cobas) e richieste "romane" di nazionalizzazione dell'impianto (chiesta ieri da Susanna Camusso).
Non guasterebbe un segnale netto e concreto di buona volontà da parte della famiglia Riva: è stato fatto molto per aumentare le risorse per le bonifiche, ma in questa vertenza è bene che non si percepisca che la proprietà è "distante (e non solo geograficamente).
Nel frattempo compare – in un orizzonte politico istituzionale assai fosco – anche un referendum-beffa sul quale si vorrebbe far pronunciare la cittadinanza sulla permanenza o meno della vocazione siderurgica del principale polo d'Europa (con due quesiti: chiudere tutto lo stabilimento o chiudere solo l'area a caldo). Una scelta goffamente pilatesca che lascia in capo a un ristretto bacino di cittadinanza una scelta d'interesse nazionale se non europeo. Un referendum burla che – come sempre accade quando l'emotività prevale sugli argomenti razionali – farà preferire alla folla Barabba. Cioè la scelta sbagliata. Non è un sì o un no che può sciogliere la complessità delle politiche di sviluppo.
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