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Questo articolo è stato pubblicato il 13 maggio 2012 alle ore 08:13.

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MILANO
Ai primi posti in Europa per incidenza del prelievo fiscale e sociale sulle buste paga, ma soprattutto ai vertici per peso complessivo della pressione tributaria sul conto economico. Le piccole e medie imprese italiane lanciano l'ennesimo allarme per una zavorra che sta frenando da troppo tempo la corsa con i principali competitor europei. Da un lato un mercato interno asfittico, penalizzato da una capacità di consumo ai minimi storici, dall'altro la necessità imprescindibile di presidiare i mercati esteri: è in questo scenario che le Pmi devono fare i conti con un cuneo fiscale (il peso di imposte sul reddito, contributi previdenziali a carico del lavoratore e del datore di lavoro sullo stipendio lordo pagato dall'azienda) ai massimi dal 2000, salito nel 2011, secondo i dati Ocse, fino a un'incidenza del 47,6 per cento. Il dato è inferiore al cuneo della Germania (49,8%), ma è soprattutto la parte dei contributi a carico dell'azienda, pari al 24,3%, a essere fuori controllo, se paragonata con i 16,5% della Germania o il 9,9% del Regno Unito. Estendendo lo sguardo al prelievo fiscale complessivo sui bilanci aziendali (includendo quindi anche le tasse sui profitti e altre imposte), la Banca Mondiale ha stimato in un 68,6% il Total tax rate italiano, vale a dire l'incidenza complessiva del prelievo fiscale sui bilanci.
«Il peso del costo del lavoro si salda con l'incidenza del prelievo fiscale e dei costi energetici – spiega Sandro Bonomi, presidente di Anima –, creando un mix esplosivo. L'Inghilterra sta studiando una flat corporate tax al 20%, e anche altri Paesi europei stanno pensando ad iniziative analoghe. Per non parlare dei Paesi emergenti dell'Europa dell'est: molte imprese si chiedono perché devono continuare a produrre in Italia, se il gap di competitività è ormai al 30 per cento. Certo, in Germania il cuneo fiscale è più alto, ma lì le imprese hanno servizi e opportunità. Solo con un allineamento europeo della corporate tax potremmo avere l'ossigeno per competere con i nostri concorrenti». Dello stesso avviso Antonio Gozzi, leader di Duferco e presidente designato di Federacciai: «Le imprese siderurgiche hanno fattori di criticità più determinanti, come i costi ambientali e quelli energetici. Si tratta però, di aziende esposte alla concorrenza di Paesi emergenti come India, Russia e Cina, dove il dumping sociale è ai massimi livelli». La conferma che non è solo il cuneo fiscale, ma la pressione fiscale in generale a non fare dormire sonni tranquilli alle aziende arriva da Paolo Angelucci, presidente di Assinform, l'associazione nazionale delle aziende di Information Technology, secondo il quale «al di là del cuneo sul nostro settore pesano molti oneri impropri, come ad esempio la tassazione sugli strumenti informatici mobili o le auto aziendali. Incide molto sul nostro comparto anche il costo dell'Irap. Il tutto si traduce in una grossa penalizzazione per le imprese, che pesa anche sull'inserimento dei giovani, che nel nostro comparto devono inoltre quasi sempre essere formati prima di potersi inserire in azienda». Per il presidente di Confindustria Veneto Andrea Tomat, il problema ha due componenti, «quello contributivo e quello fiscale: il risultato – spiega – è che siamo ai vertici in Europa come prelievo, ma non certo in termini di servizi ricevuti. Il carico elevato che scontiamo è paragonabile a quello di nazioni che fanno del welfare il proprio vanto, e che sanno redistribuire le risorse con qualità ed efficacia certo non paragonabili a quelle italiane». Le proposte elaborate per avvicinare costo aziendale e reddito percepito dal lavoratore – il lordo e il netto – non hanno dato esiti: «E questo – aggiunge Tomat – è un fattore cruciale quando si parla di competitività, di costo del lavoro per unità prodotta, perché metà di quel costo lo determina lo Stato. E in settori a più alta intensità di lavoro, come il tessile di cui è ricco il Veneto, con una minore capacità di assorbire i costi, l'effetto è dirompente». Non solo: in una regione praticamente di confine, se in territori vicini e appartenenti alla Ue si offrono condizioni significativamente diverse, «valutarle, alla ricerca dei migliori fattori di produzione, diventa più che una tentazione». Il riferimento è alla campagna acquisti in corso da parte di regioni quali la Carinzia, che nei giorni scorsi ha incontrato – facendo il tutto esaurito – gli imprenditori del trevigiano per proporsi come territorio nel quale portare investimenti e attività.
Per il presidente di Confindustria Lombardia, Alberto Barcella, «in questo momento è necessario un grande senso di responsabilità: le tasse vanno pagate, va combattuta l'evasione fiscale. L'impegno e l'azione del governo per contenere il deficit, che apprezziamo, rappresenta però un'indubbia zavorra per la crescita e lo sviluppo. Auspichiamo che dalla spending review si liberino le risorse utili almeno ad allontanare lo spettro di un ulteriore inasprimento fiscale: un aumento dell'Iva, a questo punto, sarebbe insostenibile». In linea, la presidente di Confindustria Piemonte, Mariella Enoch, secondo la quale «eventuali interventi sul cuneo fiscale avrebbero valore solo se accompagnati da ulteriori misure di sviluppo. C'è un'emergenza grave, rappresentata dall'incertezza o dall'assenza di risorse per la crescita». Per Alfredo Mariotti, direttore generale Ucimu-Sistemi per Produrre, l'ampiezza del cuneo fiscale in Italia «genera due tipi diversi di difficoltà. Innanzitutto, in un settore come il nostro, abbiamo molti tecnici altamente specializzati. Evidentemente queste figure professionali vanno pagate per quello che valgono, e se il cuneo fiscale in Italia è maggiore si creano delle ovvie difficoltà per le aziende. Ancora le nostre sono società che esportano per una percentuale assai considerevole del fatturato, e un'alta pressione fiscale ci penalizza proprio nelle esportazioni. Per controbilanciare si potrebbe, per esempio, abbattere l'Irap di una percentuale uguale a quella del fatturato ottenuto all'estero da un'azienda».

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