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Questo articolo è stato pubblicato il 18 maggio 2012 alle ore 06:42.
Le cose cambiano. E si vedono le prime crepe nel patto del credito locale. I piccoli e medi imprenditori e gli artigiani hanno sperimentato, negli ultimi dieci anni, due shock violentissimi: dal 2002 la contrazione degli impieghi provocata dalle fusioni bancarie e, dalla fine del 2008, il credit crunch da contagio del manifatturiero post crollo di Lehman Brothers. Sono sopravvissuti grazie alla politica espansiva dei piccoli istituti e delle banche minori. Credito cooperativo, ex casse di risparmio rimaste fuori dal risiko bancario, popolari. Ora, però, in questa alleanza virtuosa iniziano ad avvertirsi alcuni scricchiolii.
Nessun break-up radicale. Nulla di sconvolgente, in un contesto italiano e internazionale percorso da tensioni profonde (crolli ripetuti delle Borse e down-grading periodici delle grandi banche italiane da parte delle agenzie internazionali) e in realtà locali dove, ancora oggi, la vita economica è regolata dai rapporti personali fra imprenditori e direttori di filiale più che dall'asettica neutralità dei rating. Ma qualcosa, nel profondo del nostro tessuto produttivo, sta succedendo. L'ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria della Banca d'Italia dimostra infatti un rilevante aumento della quota dei prestiti verso le imprese in temporanea difficoltà (cioè con incagli e prestiti ristrutturati, nella definizione di Via Nazionale).
Dal 2006 a oggi, questa quota complessiva è passata dal 2% a poco più del 6 per cento. Per le banche grandi e medie (nella nomenclatura di Palazzo Koch, tra 21.532 e 182.052 milioni di euro intermediati) è salita dal 2% al 5,5 per cento. Per quelle maggiori (Unicredit, Intesa Sanpaolo, Mps, Ubi e Banco Popolare) dal 2% all'8 per cento. Per le minori (meno di 3.626 milioni di euro intermediati), questi crediti problematici sono passati dal 3% al 6,5 per cento. Addirittura, per le banche piccole (totale dei fondi intermediati tra 3.626 e 21.531 milioni di euro) sono cresciuti dal 2% a oltre l'8 per cento, per la prima volta sopra tutte le altre categorie dimensionali.
Certo, il grosso del fardello banca-impresa resta sulle spalle delle piccole banche. Basta analizzare i dati di Eurofidi (3,73 miliardi di euro di garanzie rilasciate e uno stock di finanziamenti garantiti di 6,76 miliardi), che ha 48mila imprese socie-clienti, in particolare al Nord. In media, su cento pratiche deliberate da Eurofidi nel primo quadrimestre del 2011, ne erano state rifiutate ventitrè dal sistema bancario nel suo complesso. Nello stesso periodo di quest'anno, sono diventate trentadue. Considerando soltanto quelle vagliate dalle Bcc, la quota di pratiche non perfezionate è rimasta, esattamente come un anno prima, pari al 14 per cento. Dunque, la centralità delle banche di piccole dimensioni, le Bcc ma non solo, è confermata. Come sottolinea ancora l'ultimo Rapporto di Via Nazionale sulla stabilità finanziaria: «La contrazione dei prestiti concessi dai primi cinque gruppi bancari (-2,8 per cento, al netto delle sofferenze e dei pronti contro termine, nei dodici mesi terminati a febbraio) è stata in parte controbilanciata dai crediti erogati dagli intermediari minori (1,4 per cento)». Tuttavia, nello stesso documento, la nostra banca centrale aggiunge: «Anche quest'ultima componente è però in rallentamento. Inoltre, in prospettiva, essa potrebbe risentire dell'indebolimento delle condizioni di bilancio delle banche piccole e medie dovuto all'evoluzione del rischio di credito e della redditività».
Parole coerenti con quelle più esplicite, per quanto rivolte soltanto a un segmento cresciuto molto negli ultimi anni come quello delle Bcc, pronunciate lo scorso 9 dicembre dal vicedirettore generale della Banca d'Italia, Anna Maria Tarantola: «È necessario intervenire con scelte coraggiose sul livello e sulla struttura dei costi. In presenza di un forte calo dei ricavi, i costi operativi, infatti, hanno continuato a crescere dal 2008 al 2010. Più in generale è necessario un nuovo impulso verso il conseguimento di livelli più elevati di efficienza, anche rivedendo strutture produttive e distributive adottate per realizzare ambiziosi progetti di crescita ora non più realistici».
Il nodo, per le Bcc come per le popolari e le ex casse di risparmio rimaste indipendenti, è la prospettiva. «Appare inevitabile – osserva a questo proposito Antonio Forte, economista del Cer – che la crisi modifichi la qualità del credito e influisca sui conti delle micro banche che, pur essendo in media più patrimonializzate dei big player, scontano una minore diversificazione territoriale». E, così, può capitare, dentro all'unanime giudizio della centralità delle banche piccole e minori, di iniziare a cogliere voci dissonanti. «Nella fase di start-up – racconta Ilario Giacometti della D&C Modelleria di Vigodarzere in provincia di Padova – per un affidamento da 200mila euro una Bcc ha chiesto a me e ad altri due membri del Cda fideiussioni personali per 100mila euro a testa, più altri 100mila euro garantiti da un confidi. Il nostro capitale sociale era già pari a 600mila euro. Ora, io capisco tutto, però non avrei mai pensato di sentire questo genere di richieste».
L'esperienza di una piccola realtà produttiva del Nord-Est, attiva negli impianti e negli stampi, si ripete per esempio nella dorsale meccanica dell'Emilia Romagna. Dove si diffonde la pratica della garanzia di filiera. «Noi non abbiamo alcuna questione con le banche – spiega Stefano Troni, responsabile della tesoreria della Comer Industries di Reggiolo, in provincia di Reggio Emilia – i problemi sono semmai delle Pmi che stanno intorno a noi». Non una cosa da poco. Perché, in un sistema integrato come quello italiano in cui le piccole imprese non sono da considerare atomi indipendenti ma vanno prese come tanti elementi di un unico organismo industriale, il problema di uno è in fondo il problema anche degli altri, se non di tutti.