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Questo articolo è stato pubblicato il 24 maggio 2012 alle ore 06:46.

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MIRANDOLA - «Alla fine, ne ho incontrato uno onesto. Meno male. Mi farà pagare, al mese, 40 euro al metro quadro. Negli ultimi tre giorni non ho fatto che correre da una parte all'altra della Bassa per trovare un capannone libero e in piedi. Qui, fra Mirandola e Medolla, prima era pieno di affittasi. Adesso, invece, vogliono tutti vendere. Chissà perché». A Mauro Mantovani è crollato il magazzino. Ora sa dove sistemare i suoi prodotti.

La Aries, 26 dipendenti e 5 milioni di euro di fatturato nel segmento dei dispositivi medici monouso, è una delle cento piccole imprese che, insieme ai cinque big player (Sorin, Covidien, Gambro, Bellco e Braun Carex), formano un polo industriale biomedicale accreditato, fino a un minuto prima della notte di sabato, di 5mila addetti e un fatturato aggregato di 800 milioni di euro. Sì, perché il sisma ha disarticolato questo particolare tessuto roduttivo con una tale violenza da rendere un miraggio la conservazione, nei prossimi mesi, di una simile fisionomia. I danni strutturali dovrebbero ammontare a 300 milioni di euro. E si trovano qui 3mila dei 5mila addetti per cui oggi partirà la richiesta di cassa integrazione congiunta Confindustria Modena-sindacati. Uno scenario drammatico. Con reazioni economico-emotive polarizzate. Quasi da tempo di guerra.

«Ci sono gli speculatori – sorride amaro Mantovani – ma ci sono anche tanti amici, clienti e fornitori che con generosità mi hanno offerto un aiuto materiale. E, poi, i dipendenti. In dodici ore, tutti insieme, abbiamo rimesso in sesto una parte dell'azienda». Una risposta sperimentata anche alla Gambro, la multinazionale svedese che qui, con le macchine e i dispositivi usa e getta per la dialisi, ha 800 addetti e un valore della produzione superiore ai 250 milioni di euro. «Fatichiamo a tenere i lavoratori distanti dalle aree inagibili», racconta Marco Zanasi, direttore dello stabilimento. E aggiunge: «Un centinaio sono già operativi. La Ricerca e Sviluppo non è stata danneggiata. E le infrastrutture informatiche sono rimaste intatte».

I periti delle assicurazioni stanno valutando i danni. Con gradualità, i lavoratori della Gambro torneranno in fabbrica. Per chi appartiene a reparti ancora inagibili, è stata formalizzata la richiesta di otto settimane di cassintegrazione. Un ammortizzatore sociale che vale anche per le piccole aziende. «La camera bianca – dice Mantovani – è ferma. Otto operaie andranno in Cig. E probabilmente succederà lo stesso ai dieci magazzinieri». L'occupazione è il primo problema. Ma c'è anche la questione dell'orizzonte strategico di un sistema economico locale in cui coesistono piccole imprese e stabilimenti di grandi gruppi.

«Alcuni di essi – spiega Roberto Righi, il funzionario della Cgil di Modena con la delega sul biomedicale – sono a controllo straniero. Per questa ragione abbiamo gli occhi aperti: è importante che effettuino subito gli investimenti per fare ripartire la produzione. Per ora non abbiamo alcun segnale negativo». Una osservazione condivisa dall'ottantenne Mario Veronesi, padre del biomedicale di Mirandola, fondatore di quattro start-up poi cedute a gruppi maggiori: «Molte delle grandi aziende hanno appena ultimato cicli di investimento. Non vedo perché, su un dramma significativo ma comunque superabile come il terremoto, debbano disinvestire».

Dunque, il nodo sono soprattutto le piccole società. «Un mese di stop – riferisce il titolare della Aries – significa mezzo milione di euro di mancati introiti. Non ci voleva, questo terremoto. Avevamo chiuso il primo quadrimestre con un +15 per cento». Il rischio è quello di un rapido deterioramento finanziario delle piccole aziende, che peraltro hanno come cliente prevalente la sanità italiana. «I tempi di pagamento sono esasperanti», afferma Mantovani, scorrendo l'elenco debitori (Ospedale di Verona 503 giorni, Istituto dei tumori di Bari 1.218 giorni, per citarne due). Lasciando alla letteratura industrialista se il biomedicale emiliano sia un distretto o un polo produttivo, di certo esiste un problema di tenuta del capitale sociale e di continuità della comunità economica.

«Noi piccoli imprenditori siamo sempre stati in questo fazzoletto di terra – riflette Mantovani – io, come molti altri, lavoravo in una grande azienda, poi mi sono messo in proprio. Ci conosciamo tutti. Ci strappiamo i dipendenti più validi. Prima di trovare il capannone in affitto qui vicino, sono andato a vederne uno a Poggio Rusco, in provincia di Mantova. Alcuni cercano fabbricati non lesionati dal terremoto verso Carpi e Modena. Cosa succederà se molti cambieranno sede?».
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