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Questo articolo è stato pubblicato il 17 giugno 2012 alle ore 08:14.

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di Fabrizio Galimberti Tutti devono fare sacrifici – è il ritornello (fondato) dell'austerità – e fra i tutti ci sono anche le imprese che ricevono ogni anno ben 35 miliardi di elargizioni di pubblico danaro per sovvenzioni, sussidi e incentivi assortiti. Giusto? Sbagliato.
C'è chi da anni sbandiera questa cifra come un facile bersaglio per ridurre la spesa pubblica. Ma quella cifra non ha per destinatari le imprese propriamente dette. Negli anni passati – queste polemiche sui sussidi alle imprese datano ormai dai tempi dei Governi Craxi, e nessuna paziente messa a punto dei numeri è riuscita a smontare le incrollabili convinzioni degli sbandieratori – il Sole 24 Ore ha più volte messo i puntini sulle "i" e ora vediamo di procedere all'ennesima precisazione. Cui soccorre una "definitiva" (speriamo) spiegazione delle grandezze in questione, esposta in una nota di Alessandro Fontana del Centro Studi Confindustria. I dati dell'Eurostat (vedi grafico) basterebbero da loro a sfrondare la realtà dalle fantasie: l'Italia è nella parte virtuosa della classifica, con aiuti alle imprese (industria e servizi esclusi trasporti) pari a solo lo 0,2% del Pil del 2010 (meno di 3 miliardi di euro), di molto inferiore alla media Ue (0,5% del Pil).
Ma è ugualmente interessante sapere come si è passati dai 35 ai 3 miliardi. Chi si accontenti di una "prima vista" dei numeri avrebbe ragione: nel conto economico della Pubblica amministrazione elaborato dall'Istat figurano contributi alle imprese per 34,6 miliardi. Chi voglia però capirci qualcosa e scavare più a fondo – non tutti hanno la pazienza di farlo – trova subito un motivo di dubbio. Che cosa sono le "imprese"? Sono la Biennale di Venezia? Sono i contributi per le fiere paesane? Sono l'agricoltura? Sono le municipalizzate? Sono le società che gestiscono i trasporti pubblici locali e i traghetti per le isole e ricevono contributi per tener bassi i prezzi? Sono le Ferrovie dello Stato? Sono la Rai, la Telecom, le Poste, la Consob, L'Enav, il Fondo per la salvaguardia di Venezia, le emittenti locali, le scuole e le università private, il Fondo unico per lo spettacolo, l'edilizia abitativa pubblica o le attività di culto...? Sì, sono queste e altre ancora, incluse anche le imprese vere, quelle che, sul mercato globale e in situazioni di spietata concorrenza, si battono e sudano ogni giorno per difendere produzione e occupazione.
Il problema è che, come spiega la Nota, le "imprese" in contabilità nazionale sono una "etichetta residuale": tutto quello che non è famiglie o Stato o resto del mondo è "imprese", col risultato che si è descritto.
Insomma, i "sussidi" alle "imprese" sono per la più gran parte sovvenzioni alla cultura, a società di pubblica utilità o a enti che, per l'accidente della forma giuridica, forniscono servizi di interesse pubblico, come Rai, Enav o Consob. Nel caso dei trasporti, quelle sovvenzioni diventano sussidi ai viaggiatori, perché permettono tariffe più basse rispetto a quel che sarebbe giustificato sulla base dei costi (e allo stesso tempo, tuttavia, perpetuano inefficienze nella produzione dei servizi togliendo stimoli all'abbassamento dei costi).
In un momento in cui tanti Paesi vanno riscoprendo la politica industriale, l'accetta sugli incentivi veri – quegli scarsi 3 miliardi di cui si è detto – non sarebbe una misura intelligente, tanto più che l'Italia già oggi spende meno in proposito rispetto ai principali concorrenti. Ma, si potrebbe obiettare, quei 3 miliardi sono spesi bene? Sono efficaci? La Nota del Csc onestamente riconosce come molti studi sull'efficacia degli incentivi alle imprese portino a conclusioni negative. Ma non è tanto in questione il concetto degli (scarsi) incentivi, ma il modo in cui sono erogati: «In ritardo, con alta incertezza su tempi e ammontare, sovrapposizione di enti erogatori e programmi; prevalere di interessi particolari su quelli generali».
fabrizio@bigpond.net.au
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