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Questo articolo è stato pubblicato il 19 giugno 2012 alle ore 06:43.

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Inizia da Parma il viaggio del Sole 24 Ore nelle province che battono la crisi. Nei prossimi giorni racconteremo le aree del Paese e i settori con una crescita della produzione industriale, dell'occupazione e dell'export
PARMA. Dal nostro inviato
«Qui siamo in campagna: abbiamo ancora l'abitudine di mangiare». I parmigiani scherzano sulle virtù taumaturgiche della food valley, il settore anticiclico per eccellenza. L'economia di quello che fu il granducato dei Farnese, dei Borbone e degli Asburgo macina primati simili a quelli della Renania Vestfalia o del Baden Württemberg. Il numerino messo a segno nel 2011 ha fatto sobbalzare più di qualche economista: +5,8% nella produzione industriale. Se tutto il Nord procedesse ai ritmi dell'ex granducato, si potrebbe archiviare la crisi tra i brutti ricordi. A trainare la nostra Germania in miniatura sono tre settori: l'alimentare, impiantistica compresa, la meccanica e la chimica farmaceutica.
Parma, quasi incurante di questi risultati, se ne sta placidamente distesa tra la pianura verdiana e gli appennini. Neppure le scosse sismiche che hanno tormentato l'Emilia meridionale hanno cambiato le abitudini secolari della città stendhaliana, tanto che qualcuno ha adattato ai parmigiani la famosa epigrafe dello scrittore francese - «visse, scrisse, amò» - con un prosaico «visse, produsse e si ribellò». È come se la reattività economica facesse il paio con quella della società civile. Cacciato dopo una sollevazione popolare il sindaco Pietro Vignali e insediato, con un semi plebiscito, il grillino Federico Pizzarotti. Mobilitazioni alle quali in Italia si assiste raramente. Ombretta Sarassi Binacchi della Opem, un'azienda che produce impianti per il packaging, dice di lui: «Pizzarotti è un ragazzo così solare! Impossibile non volergli bene».
Sembra che la dieta parmigiana sia il propellente del buon vivere e della produzione di qualità. Francesco Mutti, primo imprenditore italiano del pomodoro in scatola, sostiene che la formula magica sia da ricercare nella «biodiversità». Un concetto che racchiude la nozione stessa di parmigianità, con l'aiuto del quale è stato smaltito il più grande scandalo finanziario ordito da una società privata in Europa, la Parmalat di Calisto Tanzi. Uno choc collettivo che ha moltiplicato gli anticorpi dell'etica pubblica e privata. Il resto va da sé. Cesare Azzali, direttore dell'Unione parmense degli industriali, assicura che anche i primi sei mesi del 2012 si chiuderanno con performance simili a quella dell'anno scorso. E traccia la formula delle aziende di successo, confortato dalle ricerche di Franco Mosconi, docente di Economia industriale all'ateneo di Parma: «Manifattura di qualità e forte vocazione all'export con una propensione marcata all'innovazione e alla ricerca».
La metamorfosi si potrebbe raccontare attraverso i volti di 58 mila immigrati, il 13% della popolazione, molti dei quali africani, che pedalano silenziosamente lungo il Parma, il torrente che taglia la città.
La tappa quasi obbligatoria è il Consorzio del prosciutto crudo, uno dei santuari della food valley. Un prosciutto su quattro è esportato in 80 Paesi al mondo, un balzo avvenuto negli ultimi cinque anni, con la quota di export passata dal 15 al 26 per cento. Il problema, anche in questo caso, sta nell'offerta. Difficile reclutare nuovi allevatori - sono oltre 5mila sparsi nelle regioni del Nord - e soprattutto allargare il ventaglio degli stagionatori (156). Le possibilità di crescita sono esponenziali. «In Cina vendiamo solo 3 mila prosciutti l'anno. Con esclusione della Russia, i Paesi del Brics sono ancora tutti da esplorare» dice il direttore marketing Paolo Tramelli. Tutti i segnali sono estremamente incoraggianti. Cibus, la Fiera dell'alimentare che si tiene a Parma, quest'anno ha fatto il pienone, soprattutto di stranieri, tanto da costringere gli organizzatori a costruire nuovi padiglioni a tempo di record. Si potrà obiettare che per il cibo è più facile. Quel «e accatatevillo!» pronunciato da Sophia Loren nel lontano 1992 ha superato ogni barriera. Guai a scivolare nelle autocelebrazioni, però. Le cifre sono impietose: il numero uno al mondo dell'alimentare è la Germania, con 151 miliardi di ricavi e il 28,3% di export. L'Italia è terza per fatturato ma quinta per export, preceduta da Francia, Regno Unito e Spagna.
Parma ha tutti i numeri per dilagare. E ai fasti dell'alimentare somma settori meno prevedibili, come il chimico farmaceutico. A svettare è la Chiesi, 25 filiali sparse per il pianeta, la prima in Brasile trent'anni fa, 350 ricercatori e 25 brevetti all'anno su un portafoglio totale di 1.500. I prodotti per l'asma e la bronchite cronica sono venduti in 60 paesi al mondo. Alberto Chiesi, che con il fratello Paolo gestisce l'azienda, più che rivendicare i meriti di Parma loda il sistema francese degli incentivi alla ricerca. E spiega: «Scovare dei chimici in Italia è un'impresa ardua. Problemi che in Francia non esistono».
Pure Ombretta Sarassi Binacchi guarda Oltralpe, malgrado l'azienda attraversi una fase aurea: «Siamo euforici per lo spostamento dell'azienda. Abbiamo costruito un altro capannone per far fronte alle nuove commesse». La Opem nasce nell'indotto della Barilla, ma ora è una delle società più rinomate al mondo per la costruzione di impianti per il packaging. I tecnici fanno la spola tra gli States e la Cina. L'imprenditrice parmigiana ha un solo cruccio: «L'area industriale che ci ospita (la Spiss di Colorno, Ndr) non è all'altezza di una città come Parma. Quando vengono a trovarmi i clienti stranieri mi vergogno: non c'è neppure un asilo nido per i figli degli operai, la regola in Francia o in Germania. E poi i prati incolti, un paesaggio dominato da incuria e abbandono».

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