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Questo articolo è stato pubblicato il 29 giugno 2012 alle ore 06:44.


CAVEZZO (MODENA)
«Detassateci per 2 miliardi e mezzo – l'importo dei fondi previsti dal decreto 74 nei prossimi tre anni per la ricostruzione – e noi resteremo qui, ci rialzeremo e investiremo». È la proposta al Governo Monti di industriali e sindaci terremotati che si sono dati appuntamento ieri a Cavezzo, nella Bassa Modenese, lontano dai riflettori sotto una tensostruttura, per siglare il "patto per la non delocalizzazione". Mentre a Roma la politica prepara gli emendamenti al decreto da portare in Parlamento, i referenti di alcune delle maggiori imprese locali di meccanica, biomedicale e alimentare (tra cui Wamgroup, Acetum, Menù, Fresenius, Fonderie Scacchetti, Cpl Concordia, Mantovanibenne, in tutto almeno 5 miliardi di fatturato) hanno formulato un accordo e un piano di rilancio che un investitore accorto non rifiuterebbe: rinunciare a 2,5 miliardi di entrate sapendo che ve ne frutteranno sette, ovvero il valore del gettito fiscale.
«Wamgroup è nata e cresciuta su questa terra, ha un legame consolidato con le banche, i comuni e gli enti sociali – spiega il fondatore e presidente Vainer Marchesini, promotore dell'iniziativa – è parte integrante della comunità. Contribuiamo al funzionamento di questo Paese con il pagamento di 7 miliardi di euro di tasse e ora rivendichiamo il patto sociale che lega lo Stato e il cittadino ».
La decisione di mantenere la produzione nel Modenese non è solo un fatto affettivo. «Fare impresa non è un'opera pia», precisa Alberto Mantovani, ex presidente di Confindustria Emilia-Romagna, produttore a Mirandola di benne, le pale dentate che servono per tirare giù i palazzi pericolanti. La sua attività è ferma dal 20 maggio, 60 dipendenti aspettano di tornare al lavoro, ma Mantovani non chiede «elemosine, ma una moratoria per la tassazione, che già prima del terremoto era enorme, e tempi certi per gli interventi perché dopo la solidarietà iniziale i nostri fornitori e i nostri clienti non hanno tempo da perdere». Così come non chiede scorciatoie, ma norme certe: «Non me ne faccio niente di un'antisismicità al 60% – aggiunge – io voglio che il mio capannone sia sicuro al 100% perché dentro ci lavora la mia gente. Sto solo aspettando il preventivo dei tecnici. Sono le aziende il motore di questo territorio e di migliaia di famiglie».
«Non abbiamo bisogno di tanti interventi – aggiunge Roberto Casari, presidente di Cpl Concordia – ma solo di semplificarli: elenchi dei progettisti che possono eseguire i controlli e tempi certi sull'arrivo di finanziamenti o moratorie. Bisogna mettere in campo il buon senso: se le aziende riprendono l'attività ci sarà più gente che paga le tasse». «Se chiediamo una sospensione della tassazione – gli fa eco Rodolfo Barbieri, presidente di Menù – è perché continuiamo a credere in questo distretto: qui nei prossimi anni vorremmo recuperare i 25 milioni che ci servono per la ristrutturazione dei nostri impianti».
Al "patto per la non delocalizzazione" hanno partecipato anche i sindaci di Mirandola, Concordia, San Possidonio e il vicesindaco di San Felice. «La proposta di questi imprenditori – commenta il primo cittadino di Cavezzo, Stefano Draghetti – riempie il cuore dei cittadini ed è la speranza per tutti di poter riprogettare qui il proprio futuro. Ogni livello istituzionale si assuma le proprie responsabilità: occorrono norme chiare e di univoca interpretazione e la consapevolezza che i 2,5 miliardi stanziati per la ricostruzione sono largamente insufficienti».
I problemi delle grandi imprese sono amplificati nelle piccole, «che hanno voce e risorse più deboli e mentre i big di fronte all'incertezza economica e normativa possono valutare la delocalizzazione, noi artigiani possiamo solo licenziare», commenta da San Felice sul Panaro Giampaolo Palazzi, titolare della meccanica Bgp: un capannone di 1.000 mq demolito e sostituito da un tendone dove si lavorerà con 40 gradi anche in agosto, 250mila euro di spesa per far fronte all'emergenza che salirà a un milione con la ricostruzione (su un fatturato di 2 milioni). «Da soli non ce la facciamo – denuncia – e ci dobbiamo misurare non solo con norme capestro, ma con la difficoltà a trovare tecnici che si prendano la responsabilità di certificare il 60% di sicurezza antisismica e con la speculazione in atto da parte delle imprese edili contattate per i cantieri».
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