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Questo articolo è stato pubblicato il 05 luglio 2012 alle ore 06:43.

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ROMA
C'è un Meridione che pare non aver accusato le sferzate della crisi dell'ultimo quadriennio. Un Mezzogiorno laborioso e di alta specializzazione che si afferma sui mercati internazionali e che macina fatturati "insospettabili". È più o meno questa la conclusione a cui giunge un'inedita indagine promossa da Invitalia su impulso del ministero della Coesione territoriale finalizzata a verificare e misurare le trasformazioni strutturali e congiunturali intervenute nei sistemi produttivi del Mezzogiorno a seguito della crisi economica degli anni 2009-2010. L'obiettivo? Comprendere e individuare la domanda di politiche industriali e di sviluppo che emergono dal mutato scenario economico in cui si trovano a operare le imprese, rafforzando e meglio indirizzando gli strumenti di incentivazione alla competitività.
L'indagine – condotta da un pool di economisti coordinati da Gianfranco Viesti e Domenico Cersosimo – aggiorna un precedente monitoraggio sui sistemi produttivi meridionali realizzato nel 2007 sempre da Invitalia. Gli analisti hanno scandagliato sei sistemi produttivi del Sud specializzati nella produzione di beni e servizi ad alta tecnologia: il sistema dell'Ict dell'Aquila, l'aerospaziale della Campania, quello della meccatronica pugliese, il sistema dell'aeronautica pugliese, quello dell'Ict di Cagliari e il distretto produttivo dell'elettronica di Catania. «Questi sistemi produttivi ad alta tecnologia – spiega l'ad di Invitalia Domenico Arcuri – hanno evidenziato una solida capacità di resistenza rispetto agli impatti della crisi economica senza subirne gli effetti dirompenti o disgreganti che si sono manifestati in altri comparti manifatturieri. Per questo vanno osservati e seguiti con più attenzione, al fine di comprendere ed individuare la domanda di politiche industriali e di sviluppo che esprimono».
I sei distretti produttivi contano oltre 150 imprese tutte inserite in filiere produttive longeve e con evidenti segni di vitalità, tra l'altro fortemente internazionalizzate; oltre 30 mila occupati (esclusi i ricercatori); oltre 8 miliardi di euro di fatturato di cui un terzo da esportazione. La crisi economica e finanziaria dell'ultimo quadriennio ha ovviamente inciso sugli assetti strutturali e sulle performance, ma nell'insieme, stando a quanto testimoniato dagli analisti, «essi hanno tenuto, e si tratta di un risultato tutt'altro che scontato»Infatti – al netto delle difficoltà del sistema dell'Aquila (che genera tra il 12 e il 14% dell'export italiano di componenti e schede elettroniche) – non si sono determinati tracolli produttivi, perdite accentuate di quote di mercato, drastiche riduzioni occupazionali. La "moralità imprenditoriale" è elevata. «Ciò che si è verificato – aggiungono gli studiosi –, a seconda dei casi, è stata una flessione degli ordinativi e delle esportazioni (soprattutto nella meccatronica pugliese e nell'aerospaziale campano dove si concentra un quarto del fatturato aerospaziale nazionale e poco meno di un quinto delle esportazioni), l'aumento del ricorso alla cassa integrazione e il ridimensionamento dell'indotto (sistema dell'Etna Valley)».
Le prospettive future dei sei sistemi produttivi dipenderanno in larga misura dalle decisioni e dalle strategie dei gruppi multinazionali (Bosch nel meccatronico pugliese, Micron nell'elettronica abruzzese) e delle imprese a partecipazione pubblica (Finmeccanica nell'areospaziale campano e pugliese, ST dell'Etna Valley) cui fanno capo gli impianti locali, dalle configurazioni emergenti nei mercati globali e dagli assetti organizzativi delle filiere produttive di appartenenza.
Lo studio – che evidentemente nelle intenzioni del ministero servirà a meglio orientare le politiche di sviluppo del Sud legandole alle specifiche vocazioni ed esigenze – si conclude con due considerazioni e alcune proposte di merito. La prima considerazione riguarda il ruolo delle politiche nazionali: non è pensabile un processo di sviluppo per le sei aree senza che loro prospettive siano inquadrate in un disegno nazionale di politica industriale e sviluppo tecnologico, utilizzando anche le risorse aggiuntive oggi disponibili (fondi europei). La seconda riguarda il ruolo delle grandi imprese in questi sistemi e la loro interazione con i pubblici poteri che non può essere delegata a livello subnazionale: «Occorre rilanciare strategie nazionali – suggeriscono gli economisti – riguardanti sia l'offerta localizzativa rivolta alle grandi imprese multinazionali, sia gli obiettivi di sviluppo tecnologico e industriale per le imprese a partecipazione pubblica». Le proposte avanzate appaiono dunque come la conseguenza delle due considerazioni: creazione di uno strumento unico, in forma di contratto, in cui raccogliere gli impegni e le iniziative reciproche dei diversi attori, centrali e locali, pubblici e privati, con una chiara identificazione di impegni e condizionalità, sottoposto ad un continuo e fisiologico processo di revisione e monitoraggio; rilancio delle politiche di attrazione di investitori italiani e stranieri nelle sei aree in questione in cui sono presenti condizioni localizzazione uniche e preziose; infondere nuovo slancio alle politiche di sostegno alla nascita di nuove imprese, «attraverso la creazione per le sei aree di un Fondo per il seed capital di nuove iniziative imprenditoriali, attraverso fondi pubblici nazionali su cui potrebbero convergere ulteriori risorse regionali, locali e private». In fin dei conti, conclude Arcuri, «le politiche di sostegno alle imprese sono oggi frammentate in Italia in una miriade di interventi gestiti nei diversi livelli delle amministrazioni pubbliche. Ciò costituisce un fattore di depotenziamento dell'efficacia degli incentivi, oltre che di spreco e inefficienza. Occorre puntare ad una drastica semplificazione e a una loro razionalizzazione».

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