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Questo articolo è stato pubblicato il 11 luglio 2012 alle ore 11:00.

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La Cina? «Bisognava pensarci prima». È questa la sconsolata considerazione di molte imprese italiane. Invece per Myanmar, meglio conosciuta come Birmania, questo è il momento giusto. «Sembra di essere tornati indietro di trent'anni - spiega un imprenditore veterano dei mercati asiatici - quando le regioni costiere della Cina hanno cominciato ad aprirsi».

Certo la Birmania è più piccola della Cina ma resta per estensione il più grande Paese della penisola indocinese. Con alcune importanti carte da giocare: petrolio, gas naturale, industria mineraria (oro, rame, zinco, tungsteno, carbone), pietre preziose (rubini, zaffiri e giada), legni pregiati (teak).

Attorno a queste risorse e ai grandi progetti infrastrutturali che si prospettano nel Paese (gasdotti, autostrade e ferrovie di collegamento con la Cina, porti, aeroporti, parchi industriali) si stanno intrecciando i grandi giochi, quelli che si traducono nella targhetta «full» quando si cerca un posto in business class per Yangon o una stanza in un albergo. I capitali vengono prevalentemente da Cina, Thailandia, Corea del Sud e Singapore transitando spesso da paradisi fiscali offshore inclusa Hong Kong.

Ma c'è un altro aspetto di più immediato interesse per tutte le imprese, anche italiane che guardano all'Asia. Ed è l'«opportunità Birmania» all'interno della complessa equazione che intreccia costo del lavoro, strutture logistiche, accesso a supply chain competitive per produzioni a elevato impiego di manodopera. Qui non si comincia da zero: i pochi parchi industriali già attivi sono quasi tutti occupati ma altri si stanno aprendo. Vi operano fabbriche di abbigliamento, calzature, mobili che appartengono in maggioranza a imprenditori locali ma che producono in larga parte per committenti cinesi, sudcoreani e thailandesi. Sono attività prevalentemente mirate alla riesportazione su altri mercati e quindi la recente caduta delle sanzioni occidentali verso la Birmania sta promuovendo una rapida crescita di queste attività.

«Ritengo che formule come il trading e le commesse in conto lavorazione siano oggi la miglior strada di ingresso per le imprese italiane interessate a valutare questo Paese. O anche partnership a investimento contenuto (come l'apporto di macchinari) con imprenditori locali che possono aiutare a operare in un contesto ancora poco trasparente sotto il profilo delle regole di mercato. E che hanno realmente bisogno di supporto», suggerisce Alberto Vettoretti, partner di Dezan Shira, società di consulenza italo-statunitense presente nell'area.

I vantaggi sono un costo del lavoro che probabilmente è il più contenuto di tutto il Fareast (ma manodopera e quadri richiedono interventi di formazione) e costi di localizzazione e incentivi fiscali che nelle altre "tigri asiatiche" sono ormai un ricordo del passato. Per due filiere del made in Italy (settore orafo e del mobile) si aggiunge l'accesso a materie prime che la Birmania attualmente esporta ma che in un prossimo futuro cercherà di regolamentare privilegiando la lavorazione in loco: sono le pietre preziose e i legni pregiati.

In prospettiva l'altra scommessa vincente del Paese è l'integrazione, via terra, con le supply chain cinesi in un vasto numero di attività. Mancano ancora collegamenti stradali e soprattutto ferroviari adeguati, ma i progetti avanzano. Rientra in questa prospettiva lo sviluppo annunciato del grande polo portuale di Dawei che consentirà importanti risparmi di tempo (circa una settimana) nel traffico via nave da e verso la Cina.

Infine la Birmania, grazie a un incredibile patrimonio storico e a migliaia di chilometri di coste in gran parte vergini, offre grandi opportunità a chi intende operare nel settore alberghiero e della ristorazione. Il Governo ha annunciato che nei prossimi due anni aumenterà di mille unità l'offerta di camere di albergo (attualmente sono 25mila) e che costruirà un nuovo aeroporto internazionale a 50 miglia da Yangon.

Restano le incognite. Quali? La "svolta birmana" è un fatto recentissimo e coincide sul piano politico con la scelta della Giunta militare che detiene ancora il potere di affidare il Governo a un civile, Thein Sein, che ha assunto la presidenza all'inizio di quest'anno e di aprire un processo di democratizzazione molto graduale che ha portato, in marzo, all'elezione in Parlamento di San Suu Kyi, premio Nobel per la pace. Questo ha consentito il rilancio dei rapporti diplomatici della Birmania con i Paesi occidentali che l'avevano isolata con pesanti sanzioni. Potrebbero però esserci colpi di coda da parte della fazione più rigida della Giunta militare anche se la maggior parte degli esperti ritiene che non ci sia un pericolo di restaurazione.

Ma ci sono credibili motivi per ritenere che dal percorso avviato non si tornerà facilmente indietro: il rischio anche per i militari birmani è di accettare che il Paese diventi una semplice colonia cinese. Più attraente invece la prospettiva di inserire la Birmania nel vasto progetto di integrazione dei mercati Asean, organizzazione di cui il Paese assumerà la presidenza tra due anni. Ed è questo il principale motivo di interesse per le imprese italiane.

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