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Questo articolo è stato pubblicato il 19 settembre 2012 alle ore 08:48.

Nella democrazia indiana le riforme sono sempre una maratona, mai corsa veloce. Lo diceva in dicembre un economista, Prasenjit K. Basu, commentando il dietro-front del Governo di Delhi che, dopo aver annunciato l'attesa apertura alle catene straniere di supermarket, di fronte alle proteste furibonde dell'opposizione - ma soprattutto di partiti alleati - aveva ritirato la proposta.
Avanzata nel 2002 per la prima volta, del resto, proprio dagli avversari del Bjp, allora al potere. Ma in India non è strano che il cammino di una legge o di una riforma si misuri in anni: così il 79enne Manmohan Singh, padre delle riforme degli anni 90, è tornato all'attacco, e questa volta assicura che andrà fino in fondo. L'India spalanca le braccia (e un mercato da 450 miliardi di dollari) ai grandi retailer plurimarca come Wal-Mart o Carrefour, cui sarà consentito acquisire quote fino al 51% in partnership con attori locali e vendere direttamente ai consumatori. Fino a oggi, gli outlet di distributori stranieri potevano operare in India solo all'ingrosso.
La stampa locale e i capitani d'industria applaudono: in meno di 24 ore, fanno notare, il Governo ha annunciato più misure volte a liberalizzare l'economia che negli ultimi otto anni. Giovedì scorso un aumento dei prezzi sussidiati del diesel del 14%; venerdì, con la riforma del retail, la privatizzazione parziale di quattro società nel settore dell'energia e dei minerali; l'apertura alla proprietà straniera delle compagnie aeree; l'aumento della partecipazione estera nelle telecomunicazioni. Un "big bang", dopo mesi di inerzia, a cui Manmohan Singh si è risolto perché il rallentamento dell'economia non lascia alternative: l'India - così minacciano le agenzie di rating - stava per diventare il primo tra i Paesi Brics a vedere la propria affidabilità declassata al rango junk, spazzatura.
Di certo la riforma del commercio non ha convinto l'opposizione del Bjp, che si vede portar via uno dei suoi antichi cavalli di battaglia (e i voti della classe media indiana), né alleati come il Trinamool Congress di Mamata Banerjee, chief minister del Bengala occidentale. Populista convinta, Mamata ha annunciato che ritirerà il sostegno al Governo: ha il più alto numero di deputati dopo quelli del Congress Party di Sonia Gandhi, che dovrà cercare altrove appoggi per tenere in piedi la coalizione. La riforma non ha bisogno di approvazione parlamentare, ma dovrà tenere conto delle critiche. Mamata dà voce alla grande preoccupazione di chi è contrario alla riforma: la sorte delle decine di migliaia di piccoli venditori che costellano i mercati dell'India di fronte alla sproporzionata concorrenza dei giganti globali. «Perderemo tutto - dicono ricordando la lunga catena di piccoli fornitori e distributori che sta dietro di loro - in India il commercio ha sempre funzionato così, perché cambiare?».
I sostenitori della riforma sostengono invece che ci sarà spazio per tutti, e che i "negozietti all'angolo" sopravviveranno come già hanno fatto con l'avvento dei centri commerciali di brand locali. Inoltre, come ha sottolineato il direttore generale della Confindustria indiana Chandrajit Banerjee, la liberalizzazione darà una «gigantesca spinta all'umore» dell'economia, ma non solo. Si attendono ricadute positive nei settori contingui a quelli coinvolti, dall'immobiliare all'agricoltura ai trasporti. Per proteggere i produttori locali, il Governo ha messo paletti precisi: per prima cosa lasciando ai singoli stati dell'Unione indiana la libertà di attuare la riforma o ignorarla. Inoltre, i gruppi stranieri interessati potranno aprire bottega soltanto nelle città che contano più di un milione di abitanti (53, secondo l'ultimo censimento 2011). È inoltre richiesto un investimento di almeno 100 milioni di dollari per ogni "catena" di supermarket, metà nel cosiddetto back-end - lo sviluppo di infrastrutture nelle zone rurali, dalla lavorazione all'immagazzinamento alla "catena del freddo" per la conservazione degli alimenti - e metà nei negozi veri e propri.
Almeno il 30% del valore dei prodotti venduti dovrà venire da mani indiane, ma qui si nasconde una svolta importante anche per i negozi monomarca, che già possono controllare in India il 100% delle attività. La richiesta di acquisire una percentuale di produzione locale finora indirizzava a piccoli e medi fornitori indiani, requisito che finora aveva frenato tra gli altri Ikea, per quanto interessata a investire milioni di dollari in India. Ora potrebbe rompere gli indugi, dal momento che il Governo amplierà la fascia dei fornitori locali alle grandi imprese.
Con la riforma gli agricoltori dovrebbero poter contare su prezzi più onesti, perché non saranno più costretti a passare da intermediari, mentre l'afflusso di capitali e tecnologie nella conservazione e distribuzione dei cibi dovrebbe ridurre le inefficienze che oggi portano alla perdita da un terzo alla metà di prodotti che nel caldo e sotto la pioggia marciscono nel lungo cammino verso il mercato. «Siamo pronti a investire nelle infrastrutture riducendo lo spreco di prodotti agricoli, migliorando la vita dei contadini e riducendo i prezzi», scrive Raj Jain, presidente di Wal-Mart India.
La tv indiana riferisce che Singh in Consiglio dei ministri avrebbe giurato di «cadere combattendo», ma non farà un altro dietro-front. Dovrà affrontare anche la cautela degli investitori stranieri, che avranno bisogno di certezze per farsi convincere: la riforma del retail, una volta confermata, non spazza via tutte le altre ragioni che scoraggiano gli investimenti in India, dalla burocrazia alla corruzione, dai black-out alle strade inagibili. Ma dopo anni di letargo, qualcosa è successo. «L'India si è messa in marcia», ha commentato Sunil Bharti Mittal, chief executive di uno dei colossi dell'industria indiana, Bharti Enterprises. Le riforme sono tornate, aggiunge la Confindustria: augurandosi che la percezione del mondo, e le agenzie di rating, prendano nota.
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