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Questo articolo è stato pubblicato il 25 settembre 2012 alle ore 06:42.

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CASTEL GOFFREDO . - «Un figlio prepara il concorso da notaio, l'altra studia farmacia. L'azienda, quando ci ritiriamo, chiude con noi». L'ombrello "sicuro" dell'Ordine professionale, alla fine, prevale sull'orgoglio di assicurare una continuità all'impresa nata dalla "scommessa" di due lavoratori dipendenti che sino ad allora avevano fatto tutt'altro.

È l'amara constatazione di Cesare, 60 anni, che assieme alla moglie, gestisce da 28 una piccola ditta di lavorazioni conto terzi nella zona industriale di Castel Goffredo. Terzisti puri, si definiscono. Prendono commesse da grandi marche e si occupano di due segmenti della lavorazione, il fissaggio (cioè l'operazione che consiste nel distendere il collant leggermente umido su un supporto metallico a forma di gamba e nel sottoporlo a brevi vampate di calore in una camera di vaporizzazione o in un forno a secco per evidenziarne la forma del tallone, della punta, del piede e anche del copino sagomato) e la stiratura.
Sono una voce tra le piccole o piccolissime aziende, i laboratori artigiani che per anni sono stati l'indotto di una filiera che ha aumentato i margini anche grazie alla forte flessibilità e ai costi ridotti del dare in outsourcing varie fasi delle lavorazioni della calzetteria. Fasi che, tra globalizzazione e delocalizzazione, a molte aziende conviene trasferire all'interno dei propri nuovi stabilimenti nei mercati emergenti.

«Venti anni fa – spiega Cesare – avevamo 80 dipendenti su due turni da 8 ore. Per soddisfare le commesse si lavorava su 16 ore. Oggi abbiamo 35 addetti (di cui 33 donne, moltissime straniere) su un solo turno di 8 ore e a giugno è scattata anche la cassa integrazione». Un trauma per questi artigiani, rispettivamente ex dipendenti delle Poste e di una lavanderia, divenuti imprenditori nell'84 con i soldi del viaggio di nozze.
«Per capirci meglio – aggiungono – se fino a vent'anni fa avevamo 3 clienti, tutt'oggi grandi brand del mercato, oggi di clienti ne abbiamo 40 ma abbiamo dimezzato il fatturato, che l'anno scorso si è attestato a 1,5 milioni di euro, con un calo del 25% solo negli ultimi 2-3 anni. A noi resta il prodotto di nicchia, l'alta moda, le calze medicali».
Quanto ha influito la concorrenza della comunità cinese residente nel distretto? I laboratori sono diffusi, nei sottoscala, nelle cascine sparse e in ex capannoni. I cancelli dei cortili e i portoni degli stabilimenti si aprono il tempo necessario a far entrare i furgoni che scaricano e ricaricano la merce. Nessun dialogo nè integrazione nel tessuto del distretto e con il centro servizi. Il rapporto con le aziende si limita, per chi se ne avvale, alla commessa.
«In realtà – ha concluso Cesare – la comunità cinese ha sempre operato su segmenti di filiera diversi dal nostro, cioè cucitura e confezionamento delle calze. Quelli dei laboratori familiari e del lavoro a domicilio di tante donne sino agli anni '80 e '90. Una realtà destinata comunque a sparire con la globalizzazione. Ma anche tanta buona artigianalità ormai perduta».

LE CIFRE1 miliardo
Il giro d'affari

Le 220 imprese del distretto a fine 2011 (venti anni fa erano il doppio) realizzano un fatturato superiore al miliardo di euro
71,6%
Quota europea
È la quota di mercato del distretto in Europa (dall'area comunitaria alla Russia e ai Paesi dell'ex Urss). Dell'80% la quota in Italia
27,8%
Le vendite mondiali
È la quota di mercato detenuta extra Ue

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