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Questo articolo è stato pubblicato il 27 settembre 2012 alle ore 06:46.

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TARANTO. Dal nostro inviato
«Ci sono tre modi di fare le cose: quello giusto, quello sbagliato e quello dell'Ilva di Taranto». Giuse Alemanno, fisico possente, barba bianca e lunghi capelli dello stesso colore, è un operaio-scrittore dipendente da 12 anni dell'acciaieria più grande d'Europa. Alemanno ha l'istinto per le sintesi felici. Ma pure lui, alla fine di una giornata carica di scirocco africano e appesantita da un'alternarsi frenetico di notizie che hanno spaccato in almeno quattro tronconi i fronti della resistenza operaia, trova solo la forza di farfugliare. «È 'nu casino».
Difficile obiettare qualcosa di altrettanto efficace. Quella di ieri sarà archiviata come la giornata degli scalatori. Dei camini, s'intende. «Nove si sono incatenati a quota 52 del 312, l'agglomerato 2!» annuncia per telefono un operaio. E aggiunge telegraficamente: «Previsto sciopero della fame e della sete a oltranza». Neppure due ore dopo, altro annuncio, altra scalata: «Altri 10 al camino 2 delle batterie (cokerie, ndr) terza e quarta, e un altro gruppo di dieci alle batterie 11 e 12».
Uno degli scalatori del 312 si chiama Michelangelo Campo, da 13 anni all'Ilva, moglie e tre figli: «Guadagno 1300 euro e pago ogni mese 700 euro di mutuo. Il sindacato ci ha abbandonato. La fabbrica? Guai a chi la tocca, la difenderemo fino all'ultimo». L'Ilva si sta spappolando così. Campo non è mai stato iscritto al sindacato. È un cane sciolto, uno dei tanti. A qualche chilometro di distanza, davanti alla portineria D, in un luogo dove si arriva zigzagando per complanari e monconi di tangenziali invase da sterpaglie, fiumi di bottiglie di plastica spiaccicate e rifiuti di ogni genere (l'Asi di Taranto, evidentemente, se ne infischia dell'immagine che i visitatori ricavano da un breve viaggio in questo labirinto), si riunisce un gruppo di lavoratori e cittadini "liberi e pensanti". Sono imbufaliti. Ce l'hanno con l'azienda, i Riva, gli operai appollaiati sui camini, il sindacato. Il loro portavoce, Aldo Ranieri, ha una maglietta gialla con su stampigliato la famosa Apecar che il 2 agosto fece irruzione nel cuore di Taranto zittendo i segretari di Cgil, Cisl e Uil.
Ranieri è torrentizio: «I nostri genitori avevano un'attenuante che noi non possiamo invocare: erano ignoranti. Il sindacato tiene in scacco i lavoratori con il solito ricatto: non bloccate la produzione, altrimenti i Riva se ne vanno. Be', noi pretendiamo che questa fabbrica abbia le stesse regole che valgono in tutte le acciaierie d'Europa». E i denari? Ranieri e i suoi sodali non hanno dubbi: «I Riva li devono uscire i soldi».
Campo lo scalatore, Alemanno il filosofo, Ranieri l'accusatore. La galleria degli operai tarantini è infinita. Qualche osservatore-cartografo, un po' per scherzo, un po' a ragione veduta, ha tracciato la mappa geografica degli operai fedeli ai Riva, la cosiddetta "guardia repubblicana", che si contrappone alla fazione dei critici nei confronti dell'azienda. Gli ortodossi arrivano tutti dalla provincia di Taranto e Brindisi: Martina Franca, Manduria, Castellaneta, Francavilla Fontana e Ceglie, solo per citare alcuni paesi. La motivazione del loro attaccamento all'azienda la spiegano con un ragionamento che se non fosse tragico sarebbe da incasellare nella drammaturgia eduardiana: «Siente a me», dice un operaio: «Tutto dipende da quante possibilità hai di ammalarti di tumore: stai 8 ore all'Ilva e 16 in un paese a 20 chilometri dalla fabbrica in cui respiri aria buona? Al 30% ti buschi un cancro. Esci dalla fabbrica e ti sposti solo di qualche chilometro per tornare a casa? La percentuale si raddoppia».
Di tumori non vuol sentir parlare Enzo Schiavone, ingegnere di 62 anni, uno che da 32 anni smonta e rimonta altoforni. Lui dice: «Conosco questa assurda cabala delle percentuali. Ne hanno parlato anche a me. Credo siano solo balle». Schiavone è un ingegnere-scienziato con una maglietta grigia dell'Ilva di un paio di misure più grandi della sua taglia. Porta un paio di occhiali leggermente obliqui attraverso i quali fissa il suo interlocutore per capire se ha colto il senso profondo delle sue circumnavigazioni siderurgiche. Di professionisti come lui all'Ilva ce ne sono solo mezza dozzina. Quello che dice è incandescente come le brame di acciaio sputate dalla ghisa fusa a 1.500 gradi centigradi: «Forse la Gip Patrizia Todisco non è stata informata del fatto che negli ultimi otto anni io e i miei colleghi abbiamo riammodernato tutti e quattro gli altoforni dell'Ilva». Schiavone elenca gli interventi uno per uno: «L'Afo (acronimo di altoforno, Ndr) numero tre è morto e sepolto. Il quattro è stato completamente rifatto l'anno scorso; il due nel 2007. L'uno e il cinque, che da solo fa il 40% della produzione, li abbiamo rivoltati come un calzino nel 2003. Vanno ripensati radicalmente? Siamo pronti, ma ci vogliono almeno due anni di progettazione e poi un anno e passa di lavoro pancia a terra». Nella galleria dei metallurgici tarantini l'ingegnere Vincenzo detto Enzo ha un posto assicurato. Tutti insieme, litigiosamente.

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