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Questo articolo è stato pubblicato il 03 ottobre 2012 alle ore 08:44.

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Lavorazione nelle cave di granito in SardegnaLavorazione nelle cave di granito in Sardegna

BUDDUSÒ (OLBIA TEMPIO PAUSANIA). Dal nostro inviato
È una questione di intelligenza lapidea, di cavatori trattati come terroristi a causa della dinamite (ora quasi del tutto rimpiazzata dal filo diamantato) che nascondevano negli anfratti delle cave per sfuggire alla legge Reale che per anni ne ha vietato il possesso. Un mestiere romantico e ad alto rischio: complicato destreggiarsi tra blocchi di decine tonnellate staccati a suon di esplosivo.

I cavatori erano 130 neppure trent'anni fa, i sopravvissuti neppure una dozzina. Da una parte la concorrenza micidiale di paesi come il Brasile, la Cina, l'India, la Turchia. Dall'altra la politica regionale che prima ha ignorato uno dei due distretti industriali dell'isola, poi ha varato delle norme punitive motivate dal forte impatto ambientale (buchi che nessuno si è mai preoccupato di coprire) delle cave medesime.

L'intelligenza lapidea è rimasta nei cromosomi e si tramanda con discrezione di padre in figlio, interpretata da imprenditori che hanno ricoperto con il loro granito alcune delle più grandi opere architettoniche del XX secolo. Diceva Salvatore Fiore di Buddusò, il precursore del settore morto due anni fa: «La mia cava è un laboratorio, ci si può leggere tutta la storia del granito e sono orgoglioso quando arriva qualcuno capace di leggerla».

Per ammirare il granito sardo è inutile calarsi in una cava della Gallura. Il testimone più longevo che ha scavallato mode e millenni sono le colonne del Pantheon, il tempio di tutti gli dei, quasi duemila anni portati con stile.

Per secoli, il granito è stato totalmente slegato dal business, confinato all'umile dedizione degli scalpellini che ne intagliavano piccoli pezzi per uso edilizio. Un lavoro oscuro e poco remunerativo fino a quando non s'intuisce che ricavandone grandi blocchi da 30 tonnellate l'uso si sarebbe naturalmente moltiplicato.

Fiore inaugura una stagione felice che trasforma Buddusò, un Comune del Goceano di 5 mila abitanti, in uno dei cento comuni più ricchi d'Italia. Il "suo" granito ricopre il Duomo di Colonia, l'Opera di Tokio, le torri di Miami, l'aeroporto intercontinentale di Dallas. Gli architetti s'innamorano del grigio perlato di Buddusò, al quale si affiancano il rosa della bassa Gallura e il ghiandone dell'alta. Corrono in Sardegna in cerca di lavoro anche un centinaio dei ventimila albanesi arrivati al porto di Bari a bordo della Vlora, la nave-formicaio piena zeppa di migranti. Buddusò e le sue cave sono la terra promessa.

Sopra la roccia granitica che ricopre i due terzi dell'Isola, crescono le querce da sughero dalle quali nasce un altro distretto, quello dei tappi di sughero di Calangianus, primo per tecnologia e secondo per estensione di sugherete dopo il Portogallo.

Lavoro su lavoro, imprese su imprese. Un miracolo che ha gli anni contati. La fine del millennio ha un suono premonitore. Crolla la domanda in Germania, Gran Bretagna e Usa, i Paesi che più apprezzavano il granito. Brasile e India sparigliano i giochi. I veronesi e i carraresi (molti buyer del granito sardo che poi rivendono all'estero vengono da lì) comprano cave in Sud America e in Asia. Cambia il mondo. E i cavatori capiscono in un attimo di essere rimasti indietro. La mancata verticalizzazione (in Sardegna si estrae ma non si taglia né tantomeno si vende al cliente finale) è fatale. I sardi sono rimasti per troppo tempo chiusi nelle loro cave. I trader del granito si salvano, gli estrattori affondano.

Ci si mette anche la Regione Sardegna. I regolamenti obbligano a rinnovare la concessione all'estrazione ogni dieci anni e l'autorizzazione paesaggistica ogni cinque. Moltiplicate questi tempi per due è otterrete gli anni di attesa per vedere formalizzati i due passaggi. Nell'attesa che si completino gli iter burocratici, la cava rimane in un limbo giuridico, praticamente illegale. Un calvario, come racconta Francesco Boi, ingegnere minerario e direttore di cava in molte aziende, pure il rinnovo della licenza sugli esplosivi, competenza affidata a funzionari regionali che facevano parte del disciolto corpo di polizia mineraria. Dovrebbero visitare le poche cave ancora attive per verificare se la quantità di granito estratto corrisponde alla dinamite utilizzata. Ma la Regione ha tagliato le missioni, gli straordinari e i rimborsi causa crisi. E i funzionari non possono raggiungere le cave. Molte aziende erano sul punto di chiudere. Fin quando l'assessore al ramo ha deciso di prestare la sua auto blu con autista ai funzionari obbligati a raggiungere Buddusò o la Gallura. L'obiettivo è tagliare i costi, ma si finisce per mandare in missione due persone anziché una. Paradossi regionali.

Declina il granito ma risorge il marmo di Orosei, un'enorme cava a cielo aperto tra il Supramonte e le spiaggette selvagge, quasi dei fiordi, che s'incuneano tra Cala Gonone e Tortolì, con mezza dozzina di imprese e quasi 600 dipendenti. A individuare il filone prolificissimo, nel lontano 1960, è il marchigiano Vincenzo Scancella, un geometra che lavorava nelle miniere di talco di Orani. A valorizzarle Tonino Dettori, un giramondo settanduenne ed ex impiegato comunale di Orosei che intuisce la potenzialità di questi 40 ettari di carbonato di calcio leggermente rosato che per il 90% prende la strada dell'export. Dettori impara dagli errori dei cavatori di granito. E in tempi non sospetti inaugura una sede industriale e commerciale a Verona. Il primo sbarco in Continente di un imprenditore lapideo. Repetita, evidentemente, juvant.

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