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Questo articolo è stato pubblicato il 05 ottobre 2012 alle ore 09:58.

«Si tratta di un passato glorioso - riflette lo storico del design Enrico Morteo - che presentava tratti diversi da quelli attuali. L'Italia di oggi è molto differente da quella degli anni del boom. Nell'industria, allora, c'erano personaggi come Adriano Olivetti e Giulio Natta. Oggi chi c'è? Lo stesso capita nel design. Nelle mappe della globalizzazione le cose, dal punto di vista estetico, della funzionalità e dei materiali, succedono altrove. Per esempio, nel nord Europa e in Asia. Le imprese brianzole rappresentano ancora, in alcuni casi, punte di eccellenza. E hanno una loro importanza nella geografia economica internazionale. Ma, prese nel loro insieme, non esprimono sistematicamente quei valori innovativi e d'avanguardia, di vera rottura, come facevano un tempo».
Morteo avrà anche ragione. Però i designer stranieri – da Patricia Urquiola a David Chipperfield, da Naoto Fukasawa a Zaha Hadid, da Ron Gilad a Norman Foster, da Konstantin Grcic a Philippe Starck – continuano a considerare la Brianza come un luogo in cui la materia dei loro sogni e delle loro geometrie assume la concreta fisicità dei prodotti finiti. «Non esiste al mondo – riflette Giorgio Busnelli, presidente della B&B Italia – un altro posto con una tale concentrazione di imprese e un tale saper fare industriale».
Una capacità manifatturiera, all'incrocio fra estetica e processi industriali, artigianalità e serialità neo-fordista, che le radici profonde: basta pensare alla tecnologia del poliuretano espanso, introdotta nel 1966 da Piero Ambrogio Busnelli (nell'allora C&B) su un modello di Scarpa (il divano Coronado), che consentiva di realizzare su scala industriale poltrone esattamente identiche al disegno originale, senza porre alcun vincolo alla forma del prodotto.
«Jean Nouvel – racconta Carlo Molteni, amministratore delegato della Molteni & C di Giussano – ci ha chiesto di realizzare un tavolo sottile come un foglio per la fondazione Cartier di Parigi. All'inizio abbiamo pensato che non fosse possibile. Poi, come capita qui da noi, abbiamo provato a farlo. Abbiamo lavorato sei mesi per arrivare al risultato. E ci siamo riusciti, fabbricando un grande tavolo in ferro, spesso in centro tre millimetri, con le gambe saldate». Un tavolo che appare come sospeso nell'aria, con le gambe che sembrano steli di fiori. «La cosa che mi colpisce profondamente – riflette l'architetto e designer giapponese Naoto Fukasawa – non è soltanto la capacità di sviluppare i prodotti, ma è anche l'abilità di eseguire industrialmente in maniera precisa quanto concordato insieme ai tecnici e agli ingegneri dell'impresa con cui in quel momento stai lavorando. Ogni cosa si svolge con una grande precisione».
Una cultura meccanica e tecnico-ingegneristica che si è innestata sulla bellezza come rumore di fondo e come elemento della cultura di lungo periodo. «In Brianza e in tutto il vostro Paese – continua Fukasawa – esiste una idea e una pratica della bellezza antichissime che permeano il vostro modo di fare impresa. Qualcosa che, nella quotidianità, diventa un elemento essenziale per i designer di tutto il mondo».
L'industria italiana mescola alto e basso, diventando un caso concreto delle influenze reciproche delle culture popolari e delle culture elitarie teorizzate da Bachtin. Questo patrimonio di abilità collettive è stato costruito dai proprietari delle ditte e dai loro tecnici impegnati da cinquant'anni a parlare con architetti e designer per capire che cosa fare e come farlo.
Un patrimonio che adesso si sta confrontando con la digitalizzazione dell'economia. Ormai tutti i progettisti, italiani e stranieri, lavorano in 3D, con modelli e con rendering. Una informatizzazione che ha accorciato anche i tempi di gestazione dei prodotti. Una volta, per il ciclo idea-sviluppo del prototipo-industrializzazione-produzione servivano due anni. Oggi basta un anno e mezzo. È anche grazie all'accorciamento delle distanze e alla sincronizzazione dei tempi del mondo garantiti dalle nuove tecnologie, che il distretto del mobile e del design brianzolo si è trasformato in una sorta di manifattura di lusso della creatività internazionale.
«I sistemi industriali hanno una memoria – spiega Raimonda Riccini, docente di storia del design allo Iuav di Venezia – e le competenze tendono a riprodursi e a rinnovarsi. Oggi la Brianza è una specie di laboratorio di ricerca applicata in cui i creativi di tutto il mondo vengono per capire prima di tutto la fattibilità industriale dei loro prodotti e, poi, per realizzarli».
Un concetto confermato da Emmanuel Babled, designer francese che da diciotto anni vive e lavora in Italia. «La flessibilità – dice Babled – è la vostra capacità principale». Certo, le grandi innovazioni intellettuali oggi nel design si sperimentano altrove. Per esempio nell'Europa del nord, dove la scuola di Eindhoven ha cambiato molti stilemi estetici partendo dalla teoria e non dall'industria. Non a caso, lo stesso Babled ha oggi il suo studio principale ad Amsterdam. «Nella globalizzazione – conclude Babled – il vostro Paese ha una posizione precisa. Quella dell'industria artigianale. Con in più un'altra cifra: la naturale propensione a collegare il design ai materiali che appartengono ai vostri territori e alla vostra tradizione industriale. Il vetro a Murano. Il plexiglas a Milano. Il marmo a Carrara. E, appunto, il legno in Brianza. Non è poca cosa».
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