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Questo articolo è stato pubblicato il 12 ottobre 2012 alle ore 06:44.

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TRIESTE
L'incontro è fissato per mercoledì prossimo, alle 15.30, in Prefettura a Trieste: ci saranno l'amministratore delegato del Gruppo Lucchini, i sindacati, le istituzioni, tutti al capezzale della Ferriera di Servola e del suo destino incerto. Il sito dà lavoro a 493 dipendenti, più circa 300 dell'indotto ed è in stretto collegamento con un'altra realtà, la Sertubi Spa (ora Jindal Saw Italia), 180 dipendenti in cassa integrazione su 208 e una produzione che vive della ghisa fornita proprio dalla Ferriera e che a sua volta alimenta altro indotto. Facile così arrivare alla quota di mille posti a rischio, e di un possibile effetto domino.
Ieri la Regione ha deciso di chiedere al ministero dello Sviluppo economico di inserire la siderurgia triestina tra i casi di "crisi industriale complessa" in base al Decreto sviluppo, in modo da accedere agli strumenti di riqualificazione e rilancio previsti dalla legge. In provincia di Trieste, secondo dati regionali, il settore industriale nel corso dell'ultimo decennio si è contratto fino a prevedere, per il 2012, un peso del valore aggiunto inferiore al 10%: la crisi della filiera siderurgica potrebbe rappresentare, in assenza di interventi, la marginalizzazione delle attività industriali nell'intero territorio. C'è la consapevolezza diffusa che le conseguenze per la città di una chiusura della Ferriera e della Sertubi sarebbero analoghe a quelle dell'Ilva per Taranto e della Lucchini per Piombino. Lo stesso presidente della Regione, Renzo Tondo, da Bruxelles in settimana ha chiesto di «accelerare i tempi di operatività dell'annunciato Piano di azione europea per l'acciaio, non escludendo il settore dalla possibilità di ricevere aiuti di Stato a finalità regionale, accompagnando le misure di rilancio con provvedimenti straordinari per mitigare gli effetti sociali della crisi siderurgica».
Ma le ipotesi sul tappeto sono ancora da definire: «Un vero protocollo di riconversione è tutto da ricostruire – constata Franco Palman della Uilm – La crisi attuale e l'esposizione debitoria in crescita potrebbero accorciare il tempo che abbiamo». Nemmeno sulla questione ambientale c'è chiarezza: un'indagine conoscitiva è in corso, ma i tempi si annunciano lunghi. Si parla di una chiusura nel 2015, e il sindaco della città Roberto Cosolini pensa a un riutilizzo futuro della fabbrica. «Per poter rendere lo stabilimento di Trieste appetibile a possibili investitori – è la posizione di Confindustria Trieste – è fondamentale dare seguito all'accordo di programma per la soluzione del problema del sito inquinato, stipulato il 25 maggio. Azioni che in questo momento sono bloccate in attesa dell'esame della Corte dei conti, senza il cui benestare la Regione non può deliberare l'impegno di spesa e di conseguenza l'Ezit (Ente zona industriale) non può avviare la gara per le caratterizzazioni dei terreni». Si tratta di esami necessari a stabilire se e quali aree siano compatibili per ospitare insediamenti industriali, e i costi ambientali per il recupero. Non solo: «Agli eventuali investitori interessati allo stabilimento Lucchini vanno fornite assicurazioni sulla possibilità di mantenere le parti in concessione, sulla durata delle stesse e le destinazioni d'uso ammissibili. A questo proposito, Confindustria Trieste è favorevole a destinare l'area a fini industriali e logistici, ma è necessario coinvolgere direttamente la società che attualmente detiene gli asset della ferriera e le altre realtà collegate al processo produttivo della Lucchini presenti nell'area, condividendo il percorso di riconversione. L'obiettivo finale è un riutilizzo a fini produttivi in grado di assorbire gli attuali livelli occupazionali».
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