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Questo articolo è stato pubblicato il 24 dicembre 2012 alle ore 13:19.

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Da qualsiasi parte li si guardi, i salari dei Paesi emergenti crescono. Nonostante la crisi, con dati decisamente non omogenei tra loro: fatto sta che crescono. E pongono un dilemma agli investitori occidentali: disinvestire, perché produrre in questi Paesi ormai costa troppo, oppure continuare a farlo, perché se aumentano i salari aumentano anche i consumi e si creano nuovi, appetibili mercati per i nostri prodotti?

L'esempio più lampante, ancora una volta, è quello della Cina, dove negli ultimi dieci anni - sostiene l'Organizzazione internazionale per il lavoro (Ilo) - i salari sono triplicati e dove il giornale China Daily assicura che per il prossimo anno sono previsti aumenti medi di oltre il 9%: se questo è il dato cosiddetto ufficiale, significa che l'ordine reale di incremento sarà almeno del doppio, se non del triplo. Pechino contribuisce significativamente alla statistica dell'andamento mondiale delle buste paga: l'Ilo stima che nel 2011 i salari sono cresciuti in media dell'1,2%, ma se dal paniere si esclude la Cina con il suo peso specifico, allora la crescita nel mondo è stata solo dello 0,2 per cento.

Gli stipendi dei lavoratori cinesi aumentano perché le aziende tentano di non farsi scappare i talenti migliori, ma aumentano anche perché il governo lo vuole: bisogna sostenere la domanda interna, è il mantra di Pechino, se si vuole tenere fermo il timone della crescita anche quando le esportazioni - il propulsore storico dell'economia cinese - sono in deciso calo. Ecco perché a crescere di più sono gli stipendi di chi lavora nelle imprese di proprietà dello Stato. Oggi un cinese guadagna in media tra i 250 e i 440 dollari al mese a seconda che lavori in un'impresa pubblica o in una privata. Poco, rispetto a una media di 3.300 dollari degli Stati Uniti. Ma se si riparametra la sua busta paga al potere d'acquisto reale, ecco che il suo stipendio oscilla fra i 400 e i 710 dollari al mese. Qualche azienda fugge verso i paradisi asiatici dei salari bassi - Vietnam, Bangladesh, Pakistan -, qualcun'altra invece è proprio ora che investe.
Peccato però che anche nei paradisi asiatici del low cost i salari stiano aumentando. Secondo l'Ilo, negli ultimi dieci anni sarebbero raddoppiati. Certo, restiamo lontani dagli standard occidentali: per un'ora di lavoro un operaio delle Filippine continua a portare a casa 1,4 dollari, contro gli inarrivabili 35 di un danese o i 23,3 di un americano. Ma pur sempre di aumenti si sta parlando. Semmai, la buona notizia per gli imprenditori che delocalizzano - un po' meno buona, in verità, per i lavoratori - è che gli stipendi nel Far East asiatico sono comunque cresciuti decisamente meno della produttività, per cui investire rimane vantaggioso.

Chi si salva allora dagli aumenti? Fra gli emergenti, chi più chi meno, praticamente nessuno. Non i Paesi del Medio Oriente, dove secondo un'indagine Aon i salari nel 2013 cresceranno in media del 6 per cento. Di più nel settore bancario degli Emirati arabi (+8,1%), di meno nel comparto dei trasporti e in Bahrein (+4,4%). In ogni caso, è la dimostrazione che gli investitori scommettono sulla stabilità economica e anche politica della regione. Spicca, soprattutto, la previsione per l'Egitto, che dopo 18 mesi sull'ottovolante della politica ancora non è uscito dal pantano degli autoritarismi: nonostante l'incertezza sia alta, nel 2013 è attesa una crescita dei salari pari a uno stupefacente 9,5 per cento.

Aumentano - seppur di poco - anche le buste paga dei sudamericani. Ma crescono soprattutto quelle dei nostri vicini dell'Est Europa, tradizionale destinazione di molti degli investimenti produttivi delle aziende italiane all'estero. Secondo gli ultimi dati di Eurostat, che fanno riferimento al terzo trimestre del 2012, i salari sono cresciuti del 7,6% in Estonia, del 7,2% in Romania, del 7,1% nei comparti business della Bulgaria e di oltre il 4% in Polonia e Ungheria. Percentuali significative, se si considera che la media della crescita nella Ue a 17 - la cosiddetta area euro - è stata solo del 2 per cento. Vuol dire che la vecchia Europa arranca, con anche la locomotiva tedesca che non riesce a garantire ai suoi connazionali una crescita delle buste paga superiore al 3% e con i francesi che solo di poco oltrepassano la soglia del 2 per cento. L'Italia? Al palo: al terzo trimestre gli aumenti erano sotto l'1 per cento.
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