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Questo articolo è stato pubblicato il 18 gennaio 2013 alle ore 10:34.

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Il Governo l'aveva promesso. E sta mantenendo i suoi impegni: in Cina i salari continuano ad aumentare. Visto sotto un'altra prospettiva, quella delle aziende, ciò significa che il costo del lavoro continua a lievitare. Con tutto ciò che ne consegue.

L'ultimo, robusto ritocco all'insù è di qualche settimana fa: il ministero del Lavoro cinese ha disposto un adeguamento al rialzo dei salari minimi in 23 province e in diverse aree e città industriali del Paese. Dal 1° gennaio 2013, le aziende operanti in queste zone hanno dovuto aumentare gli stipendi base di percentuali comprese tra il 10 e il 15 per cento.

Qualche esempio. A Pechino i tabellari minimi mensili sono cresciuti da 1.260 yuan del 2012 a 1.400 yuan; nel Zhejiang da 1.310 a 1.470 yuan; nello Shaanxi (l'altra provincia, oltre a Pechino, ad aver alzato i salari per il secondo anno consecutivo) da 1.000 a 1.150 yuan. Al termine del maxi adeguamento nazionale, la città di Shenzhen continuerà a corrispondere gli stipendi minimi più elevati del Paese (1.500 yuan). Pechino, invece, continuerà a essere l'area che paga i salari orari più alti (15,2 yuan).

Secondo i regolamenti introdotti dal Governo cinese nel 2008 con il duplice scopo di riequilibrare i livelli di reddito all'interno del Paese e di stimolare i consumi privati anche nelle aree più povere, le province e le grandi metropoli industriali devono adeguare i loro salari minimi almeno una volta ogni due anni. Grazie a questo provvedimento, nell'ultimo lustro i minimi salariali cinesi hanno registrato un incremento medio a livello nazionale del 12,6% annuo. Non è un aumento da poco. Soprattutto per le aziende manifatturiere ad alta intensità di manodopera che operano nei grandi distretti industriali cinesi.

Quale sarà l'impatto dell'ultimo adeguamento salariale deciso da Pechino sull'operatività e sulla profittabilità delle aziende straniere che lavorano oltre la Grande Muraglia? «Le conseguenze in termini di costi saranno limitate perché le società straniere pagano già stipendi minimi assai superiori a quelli fissati per legge», spiega Alberto Vettoretti, direttore generale di Dezan Shira & Associates. La crescente scarsità di manodopera (soprattutto di tipo specializzato) e la necessità di fidelizzare la forza lavoro, infatti, negli ultimi anni ha indotto gran parte delle aziende straniere a corrispondere robusti incentivi salariali per trattenere gli operai nelle proprie fabbriche.

«Su una sessantina di dipendenti, abbiamo dovuto adeguare ai nuovi minimi di legge giusto lo stipendio di un paio di neoassunti», dice Maurizio Galante, amministratore delegato di Omp Mectron, un'azienda meccanica di Shanghai, città dove nell'ultimo decennio i salari minimi sono quadruplicati. Tuttavia, l'aumento generalizzato degli stipendi più bassi si ripercuoterà sicuramente sulle aziende straniere con produzioni a basso valore aggiunto che impiegano molta manodopera. È il caso tipico delle società taiwanesi e di Hong Kong, le prime arrivate in Cina oltre vent'anni fa per sfruttare il basso costo del lavoro, nei cui ranghi a tutt'oggi sono a libro paga eserciti di operai che percepiscono il salario minimo.

Probabilmente, è questa la ragione per cui una grande area industriale come Donguann - la città del Guangdong che ospita importanti distretti labour intensive come quelli dell'occhialeria, della plastica, dei pellami, delle piastrelle - quest'anno non ha varato adeguamenti dei minimi salariali (pari a 1.100 yuan). In quel caso, infatti, l'intera area avrebbe rischiato una fuga di massa delle migliaia di aziende che vi lavorano con margini risicati all'osso, e per le quali un incremento del 10% del costo del lavoro sarebbe potuto risultare fatale.

Al pari di altre questioni cruciali per il futuro del Paese e per la sostenibilità della sua crescita economica, quindi, anche sul fronte dell'occupazione oggi la Cina è costretta a cercare un difficile equilibrio tra forze contrapposte. Da un lato, la nuova leadership guidata da Xi Jinping dovrà continuare a ridistribuire la ricchezza all'interno di una nazione sconfinata, sempre più divisa socialmente tra chi ha e chi non ha: il Nord e il Sud, l'Est e l'Ovest, le città e le campagne. Dall'altro, la nomenklatura emergente dovrà cercare di mantenere la competitività del made in China che, a trent'anni dal decollo industriale voluto da Deng Xiaoping, dipende ancora in larga misura dal costo del lavoro.

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