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Questo articolo è stato pubblicato il 09 febbraio 2013 alle ore 08:16.

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di Paolo Bricco
E se l'Ilva non fosse il maggior problema siderurgico che affligge il sistema industriale italiano? O, per meglio dire, se non fosse il caso più irrisolvibile?
Scusate il paradosso. Ma, nel caso in cui a Taranto arrivasse un investitore asiatico - magari uno di quegli indiani che i Riva stanno affannosamente cercando - l'impianto verrebbe in tempi rapidi bonificato nella parte ambientale e tornerebbe in fretta a essere la seconda maggiore acciaieria europea. La fabbrica è poderosa e, fin dai tempi dell'Italsider, ha una sua naturale fisionomia fondata sull'integrazione dell'intero ciclo: dall'agglomerato all'altoforno, passando dall'acciaieria e dal laminato a caldo, fino al laminato a freddo. Dalla attività imperniata su Taranto dipende poco meno di di un terzo del fabbisogno nazionale di acciaio. Una quota che sale al 60% nei laminati piani. Nessuno ha mai messo in dubbio la sua strategicità. E, non a caso, con tutti i suoi limiti è stata impostata una azione di sistema per cercare di risolvere una questione che, da economico-ambientale, si è trasformata in giudiziario-politica. A Taranto servono i soldi. E, nel processo avviatosi due settimane fa di disponibilità a cedere ad altri quote di capitale, appare utile la graduale separazione della sorte della famiglia Riva dai destini dell'Ilva.
Il problema è che la polvere e i fumi che si sono sollevati in questi mesi da Taranto hanno reso meno chiaro e intellegibile il resto del paesaggio siderurgico italiano. In questo paesaggio campeggiano pure le acciaierie di Terni, in Umbria, e di Piombino, in Toscana. Che hanno un loro peso nell'economia italiana. E hanno una loro specifica fisiologia industrial-finanziaria che rende più o meno semplice la soluzione dei problemi che le riguardano.
Prendiamo la vecchia ThyssenKrupp Acciai Speciali Terni. Gli attuali proprietari, i finlandesi di Outokumpu, per ragioni di antitrust europea devono cederla. Deve ancora concludersi la raccolta delle manifestazioni di interesse non vincolanti da parte dei potenziali acquirenti. È presumibile che, nella seconda parte di febbraio, inizino le visite nello stabilimento dei gruppi interessati a questo vero e proprio gioiello tecnologico e produttivo. Quanto, in termini di selezione dell'acquirente, succederà nelle prossime settimane non sarà irrilevante per i futuri equilibri interni alla manifattura italiana.
Secondo una analisi del centro studi Siderweb, a Terni si ottiene il 75% degli acciai speciali piani (in particolare nastri a caldo e a freddo, più tubi saldati), metalli inossidabili che finiscono negli elettrodomestici e nell'automotive a più alto valore aggiunto (per esempio, le marmitte delle macchine dei segmenti premium e lusso). Terni, con i suoi 3mila addetti, è una fabbrica flessibile. I ricavi procapite di Terni (acciai speciali con forni elettrici) superano il milione di euro. L'Ilva (acciai comuni con ciclo integrale) ne fa 416mila euro. La ex Lucchini (acciai comuni lunghi) ne fa 415mila euro. Il valore aggiunto procapite di Terni è di 41mila euro, contro i 46mila euro dell'Ilva e i 23mila euro della ex Lucchini. Il contenuto tecnologico del ciclo industriale di Terni è ben rappresentato dal nucleo locale del Csm, il Centro Sviluppo Materiali, la maggiore società di ricerca applicata nel campo della siderurgia italiana, che dal 2000 ha ricevuto, dentro al perimetro della fabbrica umbra, commesse per un valore superiore ai 50 milioni di euro.
Il vero nodo è dunque rappresentato da Piombino, da cui escono tre milioni di tonnellate di prodotti lunghi all'anno: barre per l'edilizia, vergelle per i fili dei pneumatici, rotaie.
L'ex acciaieria dei Lucchini ha tre criticità: la finanza, la dinamica commerciale e il profilo industriale. Il problema finanziario vale sia nella capogruppo russa, quella Severstal che ha grosse tensioni patrimoniali, sia nella società italiana. Secondo i dati del bilancio 2011 l'ex gruppo Lucchini ha un rapporto fra debiti bancari e fatturato pari al 60,94%, una redditività del capitale investito pari a -73,27% e una redditività del patrimonio pari a -44 per cento. La criticità commerciale riguarda il suo core business: a Piombino è fabbricato il 90% delle rotaie italiane, peccato che il business delle costruzioni di nuove linee ferroviarie sia quasi nullo nel nostro Paese e sia florido soprattutto nella ex Unione Sovietica, dove però i problemi di Severstal non consentono alla ex Lucchini di penetrare come in teoria potrebbe fare. La criticità industriale è, se possibile, ancora maggiore. La capacità di tre milioni di tonnellate è inferiore agli standard di mercato. Ma, soprattutto, lo stabilimento ha l'altoforno, ma è senza l'agglomerato. Questo significa che, in ogni caso, la materia prima deve essere portata a Piombino, con uno svantaggio di costo incolmabile. A questo punto, in uno stabilimento che fra addetti diretti e indiretti conta su oltre 4mila persone, appare evidente che ogni ipotesi di soluzione appare assai remota.
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