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Questo articolo è stato pubblicato il 14 marzo 2013 alle ore 11:00.

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Lei è una bimba ossuta ma molto carina, di 4 o 5 anni.
La sua mamma ha uno sguardo spettrale, con rapacità le strappa di mano la caramella che un operatore umanitario le ha appena offerto. Se la mette in bocca e la inghiotte senza neppure scartarla. Siamo a Cité Soleil, la bidonville più nota di Port-au-Prince.
Tre anni dopo il terremoto che ha provocato 300mila morti, Haiti non ha avuto tregua.

Due uragani, Sandy e Isac, e poi il colera. Verrebbe da dire "senza speranza" se non si percepisse un'energia straordinaria: nelle strade, negli slum, tra i bambini di strada. Dieci milioni di abitanti, il 70% di disoccupati, la gente che vive con meno di due dollari al giorno.
Aiuti e macerie. Più di 7,5 miliardi di dollari. È questo il flusso di denaro arrivato ad Haiti, ingente, anche se metà di quanto annunciato nei mesi succcessivi al disastro. Il presidente haitiano Michel Martelly conferma al Sole 24 Ore le cinque emergenze del Paese: istruzione, occupazione, ambiente, energia e stato di diritto. «Qualcosa si sta muovendo, eccome - dice Martelly - si sono aperti nuovi cantieri, abbiamo costruito 400 case in 200 giorni e altre 3mila case saranno pronte tra non molto. Resta tutto difficile, sia chiaro. La ricostruzione non è solo edilizia, interessa un intero Paese su cui si sono abbattute catastrofi naturali, una dopo l'altra».
Un Paese martoriato da instabilità e violenza, povertà e analfabetismo, deforestazione; vittima di una moderna colonizzazione che lo affligge da decenni. Alessandro Corallo, autore di "Haiti non muore", spiega che «i flussi di aiuti internazionali non avviano un circolo virtuoso perché rientrano in Europa o negli Stati Uniti. Le società che si aggiudicano i bandi per la ricostruzione sono sempre straniere e Haiti non è nelle condizioni di offrire una partnership nazionale». Infrastrutture di base, appunto, che mancano. E che i donatori non riescono, non vogliono costruire. Poche settimane fa l'autocritica di Hillary Clinton, che ha invocato un'inversione di rotta. «Si facciano investimenti di lungo periodo, invece di limitarsi a stringere accordi con il Governo di Port-au-Prince per progetti di corto respiro, mirati a ottenere un ritorno di immagine del Paese donatore» più che un effettivo aiuto a un Paese stremato. Una linea confermata da Jessica Faieta, direttore di dipartimento del Programma di sviluppo dell'Onu: «Temo che una buona parte dei 7,5 miliardi di dollari siano transitati da una banca all'altra senza che le popolazioni haitiane ne abbiano beneficiato in alcun modo».
La Fondazione Francesca Rava Nph Italia Onlus, da anni presente ad Haiti, ha costruito ospedali e orfanotrofi, scuole di strada e centri di formazione professionale. Progetti mirati che sostengono varie realtà sul territorio: un esempio è la formazione di panettieri, sponsorizzata dal Comitato Haiti Confindustria-Cgil Cisl e Uil. Mentre l'Acri (Associazione fondazione bancarie e Casse di risparmio), sempre attraverso la Fondazione Rava, ha messo a disposizione 800mila euro per prevenire la malnutrizione.

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