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Questo articolo è stato pubblicato il 13 aprile 2013 alle ore 08:17.

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MILANO
Non c'è solo il Brasile. Quando si parla di opportunità sui mercati emergenti dei Bric, la B di Brasile e la I di India rischiano, per gli imprenditori italiani, di scivolare sullo sfondo del "vorremmo, ma non possiamo", nonostante si tratti di Paesi con una borghesia popolosa, redditi galoppanti e gusti inclini al design europeo oltre alla passione per gli status symbol. E la colpa è del sistema dei balzelli che si abbattono dalla dogana alla consegna della merce. I dazi – talvolta uniti a politiche protezionistiche non tariffarie - sono il principale nemico del made in Italy (e in questo caso dell'arredamento e del design) in una serie di Paesi.
Secondo i dati Wto e Commissione europea, elaborati dal rapporto Confindustria–Prometeia, se in Vietnam, Egitto e Indonesia i dazi vanno dal 30 al 18% del valore del bene, in India possono arrivare al 30% e in Brasile – tradizionalmente caso limite – lievitare sino all'80% (e in qualche caso al 100%) del valore del prodotto. Qui infatti il dazio medio rende poco l'idea. Sia il Brasile che l'India hanno una, se pur debole, piccola imprenditoria locale da sostenere, e sono Stati federali. Ciò significa che non c'è solo il dazio doganale, ma spesso quello federale, statale e comunale. Ogni Stato poi si autodisciplina l'Iva. La sola aliquota della "Afrmm" (ulteriore imposta, a favore della Marina mercantile brasiliana) è pari al 25 per cento.
«Il problema è grave – ha ricordato il presidente di FederlegnoArredo, Roberto Snaidero –. Del resto sono lieto che il commissario Ue all'Industria, Antonio Tajani – che guiderà la task force Ue per i rapporti con il Brasile nel vertice previsto per fine anno – sia impegnato ad affrontare il tema».
E poi c'è l'Argentina, dove il settore dell'arredamento rientra nel Piano 2020 di "sostituzione delle importazioni", per cui l'ingresso nel mercato dei prodotti del comparto è consentito a condizione che vi sia corrispondenza per lo stesso ammontare di export. Più complicata la normativa che regola l'importazioone di illuminotecnica per le disposizioni di Buenos Aires sulla sicurezza elettrica. Settore che non ha terreno semplice neppure in Cina, dove il sistema di certificazione Ccc (China Compulsory Certification) prevede prove tecniche e di sicurezza solo nei loro laboratori autorizzati.
A questo punto, per aggirare almeno i dazi in dogana, o si delocalizza aprendo uno stabilimento o si fanno arrivare semilavorati e componentistica da assemblare in loco tramite joint venture o accordi commerciali con imprese locali. In Brasile, nel quadro del Plano Brasil Maior ad esempio, il governo federale prevede incentivi per le imprese che abbiano sino al 65% di manufatto prodotto in loco, mentre il 35% può essere tecnologia e know how dall'estero. Pochi, sinora, lo hanno fatto.
«Negli anni 2000 – ha spiegato Pasquale Natuzzi, presidente dell'omonimo gruppo – il Brasile occupava una posizione ideale: primo produttore al mondo di pelle e vicino al mercato Usa. Nel 2001, abbiamo aperto il primo stabilimento a Simoes Fhilo, nello stato di Bahia. Nel 2004 un altro vicino, a Pojuca. La strategia era produrre divani e poltrone ed esportarli negli Usa. Quando è diventato sempre meno conveniente, per la forte rivalutazione della valuta locale, ci siamo concentrati sul mercato interno. Nel 2012 – ha concluso Natuzzi – le vendite brasiliane hanno segnato un aumento dell'84% rispetto all'anno precedente».
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