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Questo articolo è stato pubblicato il 23 aprile 2013 alle ore 15:53.

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Più di 150mila al tavolo del MisePiù di 150mila al tavolo del Mise

È sfilata tutta l'Italia che produce, negli ultimi mesi, nelle stanze del ministero dello Sviluppo economico. Dall'Ilva alla Electrolux, passando per Alpitur, Italcementi, Newlat, Mariella Burani. In tutto, secondo i dati più aggiornati del Mise, 134 imprese per circa 151mila persone. Una processione di imprenditori e lavoratori accomunati dalla determinazione e dalla volontà di non disperdere il bene più prezioso per l'Italia, vale a dire il lavoro e la capacità di fare impresa. «È stato un anno e mezzo – spiega il sottosegretario Claudio De Vincenti, che ha seguito da vicino tutti i tavoli di crisi – in cui ho conosciuto i drammi di imprenditori e lavoratori, ma anche la loro capacità di reagire per mantenere aperta una prospettiva futura per le aziende e per i territori. Tutto questo senza fraintendimenti: gli interessi in campo non sono coincidenti e ognuno deve giocare la propria parte. Quella del governo – spiega il sottosegretario – è la parte di chi deve saper ricondurre gli interessi contrapposti verso le soluzioni che meglio corrispondono all'interesse generale del paese, del suo sistema produttivo, della sua capacità di sostenere il confronto sui mercati».

In molti casi le crisi delle grandi imprese stanno determinando complessi fenomeni di deindustrializzazione. In alcuni casi, grazie alla task force del Mise, si sono però raggiunti alcuni risultati positivi. Dal rilancio della competitività di Fincantieri, al mantenimento in Italia delle attività di ricerca e sviluppo di Alcatel-Lucent, fino alla riconversione dei siti industriali e al mantenimento occupazionale di realtà come Golden Lady (unità di Faenza e di Gissi-Chieti), Bat di Lecce, Indesit (unità di Bergamo, Treviso e di recente di None, Torino) e Tamoil (raffineria di Cremona).
«Il primo dovere del governo – spiega De Vincenti – è limitare l'uso di risorse pubbliche, cioè risorse dei cittadini, ai soli casi di crisi in cui tale uso è giustificato. Spesso si ha a che fare con situazioni che non richiedono risorse pubbliche ma, piuttosto, l'accompagnamento nella ricerca di riposizionamenti o di interlocutori in grado di rilanciare l'azienda. Né avrebbe senso mantenere in piedi con risorse pubbliche imprese definitivamente compromesse. Il ricorso a risorse di bilancio, per esempio sotto forma di un Contratto di sviluppo, ha senso se si ha a che fare con un'impresa che è in grado di ristrutturarsi con prospettive di redditività e solidità competitiva e che deve superare una fase di avvio degli investimenti cui serve assicurare sostenibilità finanziaria. Così come ha senso nel caso di un'area di crisi industriale complessa, dove occorre mettere a sistema interventi di diversificazione produttiva, facendo emergere nuove filiere di industria e di servizi, e interventi di infrastrutturazione».

Al 30 marzo, sottolinea il Mise, sono 148 i tavoli di crisi, che interessano circa 151mila lavoratori, considerati «a rischio». I funzionari sono stati impegnati anche in 108 procedure di amministrazione straordinaria. Rispetto a dicembre il numero di tavoli di confronto è stabile (allora erano 147). Ma alcune situazioni si sono aggravate, altre volgono in meglio. Alla Om Carelli si pensa alle riconversione del sito. Ma Berco annuncia 611 licenziamenti, e Candy ha confermato 260 esuberi su 675 per i due stabilimenti di Brugherio (Mb) e Santa Maria Hoè (Lc). «La novità di questi ultimi mesi è il coinvolgimento di grandi aziende che hanno ricadute negative su indotto e pmi», dice Salvatore Barone, per la Cgil, e per questo «servono subito grandi interventi per mettere in moto investimenti caratterizzati da forte innovazione».

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