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Questo articolo è stato pubblicato il 27 aprile 2013 alle ore 08:19.

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ROMA
Aperture dall'area del centrodestra e dal mondo delle imprese. Critiche (prevalentemente) da centrosinistra e sindacati. Il sasso nello stagno lanciato da Pellegrino Capaldo con la sua proposta anti-disoccupazione divide il mondo politico e produttivo. «La proposta è interessante perché muove dalla constatazione di un mercato del lavoro bloccato anche in relazione alle rigidità introdotte dalla riforma Fornero», dice Maurizio Sacconi, senatore del Pdl ed ex ministro del Lavoro. «L'idea - prosegue Sacconi - riprende la nostra proposta di abbattimento del costo indiretto del lavoro per un arco pluriennale, soprattutto con riferimento ai più giovani». Un altro ex ministro del Lavoro, ma di area Pd, Tiziano Treu, mette un paletto preciso. «Si può discutere di tutto, ma il punto fermo deve essere la contribuzione. Capisco la flessibilità, e ci sono formule simili che sono state già seguite in altri Paesi e in parte con le start up in Italia, ma senza contribuzione sarebbe inaccettabile. Per il resto si può vedere», spiega. Secca, invece, sempre in casa Pd, la bocciatura di Cesare Damiano: «Avanti di questo passo saranno i lavoratori a versare un contributo per essere assunti».
Condivisione dell'obiettivo di fondo, con alcune obiezioni, da parte del senatore di Scelta Civica, Pietro Ichino. Per il giuslavorista la proposta di Capaldo ha il merito di cogliere «l'esigenza urgente di ridurre fortemente il cuneo fiscale e contributivo che oggi raddoppia il costo del lavoro rispetto alla retribuzione netta che il lavoratore subordinato effettivamente percepisce», ma ha il difetto di «risolvere «il problema in modo un po' troppo semplicistico».
Industriale di lungo corso, schierato su posizioni ferme nelle relazioni sindacali, l'ex vicepresidente di Confindustria Guidalberto Guidi parla di una proposta che «può servire a qualcosa». Ma attacca: in generale «una ricetta anti-disoccupazione non può non fare i conti con la legge 300 del 1970, impropriamente detta Statuto dei lavoratori a cui si deve gran parte della difficoltà di assumere da parte delle imprese». Resta il nodo dell'articolo 18, insomma.
Dal mondo accademico, arriva l'analisi di Giuseppe Di Taranto, ordinario di storia dell'economia e dell'impresa alla Luiss, che definisce la proposta «troppo ardita (o coraggiosa)», perché «in deroga a tutte le leggi esistenti e quindi anche in deroga ai regolamenti europei nel campo del lavoro». Nettamente contrari i sindacati che parlano di una progetto senza prospettive e un po' avventuroso, che non costruisce le condizioni affinché il lavoro ci sia, e che farebbe un danno serio non solo ai lavoratori ma a tutto il Paese. Il modo per far ripartire il mercato del lavoro, già c'è, dicono all'unisono Cgil, Cisl e Uil. E si chiama apprendistato. «Bisogna ripartire da lì. Altre soluzioni non farebbero l'interesse del Paese e riaprirebbero uno scontro sui licenziamenti», è la sintesi.
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