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Questo articolo è stato pubblicato il 07 maggio 2013 alle ore 06:45.

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Le difficoltà dei numeri sono innegabili, con un giro d'affari sceso dell'1,8% annuo nel 2012, peraltro a fronte di una crescita del 5,2% a livello mondiale.
Parafrasando Dante è qui però che «si parrà la nobilitate» dell'industria tecnologica italiana, con la sua capacità di reazione all'entrata sulla scena di cloud computing e app che potrebbero far gioco alle imprese di casa nostra, trasformando in punti di forza quelli che finora sono stati considerati, a buon diritto, punti di debolezza. Non è un mistero la taglia ridotta delle imprese italiane. Il che, tuttavia, vuol dire anche molto spesso maggiore flessibilità e creatività: doti basilari per farsi spazio in un mercato in cui la concorrenza si fa con produttori, di hardware come di software, che "battono bandiere" di ogni parte del mondo.

Del resto la globalizzazione ha lasciato ben poco spazio alla produzione nostrana di hardware e circuiti, orfana da tanto del big Olivetti. St Microelectronics è sicuramente un alfiere di primo livello, ma per il resto è arduo, se non impossibile, immaginare la nascita di Lenovo italiane, come di Intel o Texas Instruments tricolori in grado di imporre chip made in Italy. Se questa è la situazione, è comunque vero che, al netto del fatto che la crescita dimensionale resta importante e su questa occorre anche puntare, tra gli addetti ai lavori si è fatta strada la consapevolezza che ci sono bisogni "di Ict" delle imprese che attendono di essere coperti. E, fra cloud, data center e altro, le richieste vanno nella direzione di servizi sempre più su misura e innovativi.

Ecco la prateria che si propone alle imprese della filiera italiana dell'Information & communication technology. A questo punto però arrivano i "ma". «È innegabile – afferma il presidente di Assinform, Paolo Angelucci – che l'andamento congiunturale non sta aiutando. È per questo che, per esempio, abbiamo chiesto una tecno-Sabatini per agevolare investimenti in beni e servizi innovativi da parte delle Pmi». Insomma, serve «un'azione di sistema. Se guardiamo agli investimenti nelle infrastrutture di telecomunicazione per esempio (si veda altro articolo in pagina, ndr.) il mercato è potenzialmente pronto a ripartire. Ma è necessario uno sforzo. Occorrerà per esempio vedere come si andrà avanti sul fronte dell'Agenda digitale. Oppure quale sarà la politica a favore delle start up come delle smart cities».

Tutte variabili non indifferenti. Tant'è che la stessa Assinform, nel suo rapporto annuale redatto insieme con NetConsulting, ha sì previsto un calo del "Global digital market" anche nel 2013, dopo il -1,8% del 2012. Ma ha altresì messo agli atti una flessione più o meno marcata, a seconda appunto che ci si trovi in uno scenario "statico" o "dinamico", e quindi con azioni a favore dell'Agenda digitale, mettendo fine ai ritardi nei pagamenti della Pa, dando incentivi e crediti d'imposta per l'innovazione. Con questi interventi il 2013 potrebbe chiudersi con un business in calo dell'1,5%; senza, la flessione sarà del 3,6 per cento. In cifre, a ballare sono 2 miliardi con un mercato digitale che nella sua versione "global" – con ambiti prima esclusi dal perimetro Ict come contenuti digitali, apparecchiature home-office connettibili in rete, Internet delle cose – sfiorerebbe i 65,7 miliardi di euro nello scenario "statico" e i 67,1 in quello "dinamico".

«Il problema serio, strutturale, sta nel fatto che questa crisi perdurante, che si riflette inevitabilmente sui consumi, sta iniziando a incidere anche sui centri d'eccellenza», dice Cristiano Radaelli, presidente di Anitec, che riunisce i produttori di tecnologie e servizi Ict e dell'elettronica di consumo. «Le imprese – aggiunge Radaelli – per poter essere competitive hanno bisogno di processi digitali. Quello che non è considerato appieno è l'importanza degli investimenti in tal senso per tutti: per le imprese e per il sistema nel suo complesso. E non si considera che per l'Italia oggi si presenta un'occasione, legata alla richiesta di prodotti e servizi sempre più di nicchia».
La qual cosa non si traduce solo in app e territori inesplorati. Bravosolution, piuttosto che Reply, Datalogic o Exprivia sono realtà consolidate che ben possono essere ricomprese in questo contesto. «Con tutti i limiti del sistema l'industria italiana ha forti competenze da mettere a frutto», sostiene Domenico Favuzzi, presidente e ad di Exprivia, azienda da 1.560 addetti in Italia e sede a Molfetta che è una dimostrazione di come realtà del genere possano attecchire anche in aree disagiate dal punto di vista industriale tout court.

È innegabile però che la spinta delle componenti nuove – su tutte gli smartphone le cui vendite in Italia nel 2012 hanno sfiorato i 9 milioni, con una crescita del 62%, – sta ponendo all'attenzione le possibilità nel terreno, non più vergine ma neanche popolatissimo, degli sviluppatori di app. Secondo i dati del Politecnico di Milano, i ricavi di queste "aziende" sono quasi raddoppiati in un anno, sfiorando i 150 milioni di euro. «Non bisogna eccedere nel pensare a entormi possibilità occupazionali. Ma visto anche il grado di penetrazione della telefonia mobile in Italia, quello delle app è certamente un mercato che può dare soddisfazioni», spiega Filippo Maria Renga, del Politecnico di Milano. Ne sanno qualcosa dalla Nokia. «Per quanto ci riguarda – conferma Paola Cavallero, ad di Nokia Italia – stiamo facendo varie azioni di training e supporto per gli sviluppatori. In alcuni casi, come per l'iniziativa App Campus che portiamo avanti con Microsoft, anche con sostegni economici. L'evoluzione dell'ecosistema va sostenuta, perché conviene a tutti».

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