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Questo articolo è stato pubblicato il 18 maggio 2013 alle ore 08:26.

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PARMA. Dal nostro inviato
Dodici miliardi di export agroalimentare in più: è la crescita che nei prossimi anni il made in Italy potrebbe cogliere. «Esportiamo per 25 miliardi – ha osservato ieri, nel corso del Cibus Global Forum di Parma, Filippo Ferrua, presidente di Federalimentare – ma possiamo arrivare a 37. La Germania, che pure non è un paese di tradizione alimentare, esporta il 10% in più dell'Italia in rapporto al fatturato. Dal 20% potremmo quindi arrivare al 28% potendo contare su prodotti della dieta mediterranea e di ottima qualità». Come colmare il gap? «Bisogna fare sistema – ha risposto Ferrua – contare sull'aiuto dell'Ice, defiscalizzare le spese per la promozione, intervenire contro le barriere dei dazi e aiutare la crescita delle imprese favorendone le fusioni».
Ieri al Cibus Global Forum di Parma, gli stati generali dei giovani di Federalimentare, la soddisfazione per la performance dell'agroalimentare tricolore sui mercati internazionali (+12% nel primo trimestre ma con una frenata a marzo) si è alternata alle proposte per recuperare il tempo perduto. Ferrua e Paolo De Castro, presidente della commissione Agricoltura del parlamento Ue, hanno stigmatizzato l'assenza di catene commerciali italiane all'estero.
Vincenzo Tassinari, presidente del comitato di gestione di Coop Italia, ha subito replicato: «Coop fa parte di una rete di alleanze internazionali, dalla Spagna al Giappone. Eppure non c'è mai stata un'industria italiana che abbia proposto un progetto d'internazionalizzazione. Inutile piangersi addosso: cosa aspettano a farsi avanti? Escludo che Metro, Carrefour e Auchan possano assumersi l'incarico di spingere i nostri prodotti, se non quelli che fanno loro comodo».
Oggi un prodotto alimentare italiano su cinque finisce sui mercati esteri. Nel 2012 i consumatori d'oltralpe hanno divorato agroalimentare italiano per 25 miliardi (+7% sul 2011) contro i 19 miliardi di import e 130 di valore della produzione industriale. L'incidenza dell'export è di circa il 20%, un record storico. Anche se la Germania è al 28%, la Francia al 25% e la media europea si ferma al 22 per cento.
Secondo De Castro le imprese italiane del food sono «troppe piccole e ce ne sono poche di taglia media e grande. E purtroppo la dimensione aziendale condiziona la nostra competitività: quelle sopra i 50 addetti sono l'1,5% in Italia ma il 9% in Germania. In 10 anni sono stati fatti molti progressi ma il nanismo dimensionale va superato».
«Attenzione - ha avvertito il presidente di Ice Riccardo Monti - la diversità e la frammentazione è la ricchezza del territorio italiano. Il mondo chiede questo. Il livello dimensionale si può superare con l'aggregazione e la capacità di fare rete».
Dall'analisi di Federalimentare emerge che oggi il 51% delle imprese italiane del food ha in corso, o ha realizzato, attività di internazionalizzazione. Gli ostacoli però ci sono: oggi i nuovi consumatori si conquistano sui mercati emergenti e questi sono i più difficili da raggiungere per le nostre piccole imprese: «Non serve arrivare terzi o quinti – ha detto Ferrua – gli strumenti di sostegno all'export devono servire ad affinare le strategie promozionali ed evitare che la fase di presidio iniziale dei nuovi mercati venga accaparrata dalla concorrenza. In caso contrario si riproporrebbero le difficoltà incontrate in Cina dal vino italiano: siamo il quinto esportatore, con una quota del 6%, e con grandi difficoltà a crescere dietro un'ingombrante Francia che, da sola, arriva al 52 per cento».
Peraltro la prossima settimana oltre cento aziende italiane del food, guidate da Federalimentare, Cibus e Koelnmesse, sbarcheranno al Thayfex di Bangkok, porta d'ingresso dell'Asean con 600 milioni di consumatori: dal 2015 l'Asean sarà un mercato unico, senza barriere tra i dieci Paesi. Tra le aziende tricolori che parteciperanno al Thayfex ci sono Mutti, Parmareggio, Saclà, Noberasco, Monini, La Molisana, Inalca, San Benedetto.
«É importante insediarsi in Asia al più presto – ha osservato Annalisa Sassi, del Salumificio San Pietro (per l'export il brand è Casale) – anche se siamo ben coscienti che le catene tedesche e francesi sono già ben radicate. C'è però anche un problema culturale: in Corea e Giappone i consumatori conoscono i nostri prodotti e i territori.
In Cina invece sono molto curiosi ma non sanno nulla: le nostre istituzioni, con la loro forza, dovranno avviare un processo di conoscenza dei prodotti italiani».
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PROTAGONISTI
Faccia a faccia
Secondo il presidente di Federalimentare Filippo Ferrua «l'export del nostro Paese ha un potenziale di crescita di 12 miliardi. Servirebbe però anche una crescita dimensionale delle imprese».
Per il presidente dell'Ice Riccardo Monti «la frammentazione è la ricchezza dell'Italia. Le difficoltà si superano con l'aggregazione e la capacità di fare rete»

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