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Questo articolo è stato pubblicato il 23 maggio 2013 alle ore 14:57.

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Capita che le statistiche non dicano tutta la verità. Altre volte, invece, un numero si rivela particolarmente utile. «Basta questa cifra – riflette con pragmatismo brianzolo Sandro Salmoiraghi – : 2,4 miliardi di euro. L'ammontare della produzione del meccanotessile italiano è stata la stessa sia nel 1990 sia nel 2012. Soltanto che, in questi vent'anni, l'export è esploso aumentando del 50 per cento. E, allo stesso tempo, la domanda interna è crollata, riducendosi anch'essa della metà».

Dunque, si può partire da questo numero per raccontare una vicenda paradigmatica dell'economia italiana e della sua (affannata e vitale) capacità di reazione, mentre tutto il mondo cambia.

Salmoiraghi non è soltanto il presidente di Acimit, l'associazione che raduna le imprese del comparto. È anche il titolare dell'omonima azienda che ha fondato a Monza nel 1963. Cinquant'anni fa, dunque. Dalla spensieratezza degli anni Sessanta alla cupezza di oggi. Passando per l'ultima globalizzazione che, dagli anni Novanta, ha modificato gli equilibri della manifattura internazionale e ha favorito la creazione di nuovi mercati finali. «Ricordo ancora la prima volta in cui andai a Taiwan da un cliente, non sapevo nemmeno dove fosse Taiwan», sottolinea con auto-ironia Salmoiraghi. L'integrazione internazionale italiana, visssuta in prima persona da Salmoiraghi e sperimentata da molte piccole e medie imprese del comparto, è coincisa con lo spostamento verso l'Asia della fabbrica del mondo. Un fenomeno verificatosi in molti comparti. In questo caso specifico, a mutare sono state le mappe produttive del tessile. In conseguenza di ciò le imprese che producono i macchinari hanno dovuto assecondare, se non in termini di insediamenti produttivi senz'altro sotto il profilo dell'offerta commerciale, la nuova gerarchia della manifattura.

Questione di sopravvivenza, soprattutto di fronte alla mutazione di un tessile italiano che, in una complessa e complicata metamorfosi durata vent'anni, ha trovato nuovi equilibri e nuove forme di efficienza, ma ha subito un rimpicciolimento della sua base produttiva che ha comportato in Italia la drastica riduzione della domanda di macchinari. Non a caso, l'indicatore grezzo formato dal rapporto fra l'export e la produzione nel 2012 è stato pari all'83%, mentre nel 1990 era del 55 per cento. «Si tratta di un fenomeno generale – spiega Giampaolo Vitali, segretario nazionale del Gruppo economisti di impresa – che riguarda tutta la meccanica strumentale. L'esposizione verso l'export assume però una rilevanza particolarmente significativa nel meccanotessile. Finora, il nostro sistema industriale nel suo complesso ha retto. Ma, per riuscire a portare la propria attività sui mercati globali, ha dovuto tirare moltissimo. Il problema è che cosa succederà domani».

Il meccanotessile ha dunque sia un peso reale sia una valenza simbolico-strategica, dato che è connesso intimamente ai punti più caldi del cambiamento economico mondiale. Il peso reale è dato dai 2,4 miliardi di euro di fatturato aggregato che, secondo l'ufficio studi dell'Acimit, corrispondono a un buon 10% della meccanica strumentale e allo 0,2% del Pil. Un giro d'affari ottenuto da un 300 imprese che hanno circa 12mila addetti. La caratura prospettica, invece, è costituita dalla forza anticipatrice che il suo andamento è in grado di esprimere, sul futuro della manifattura italiana, e anche europea.

Nel meccanotessile esistono molti segmenti, ma di certo ormai la rimodulazione delle piattaforme produttive internazionali costringe l'intero comparto, nazionale e appunto pan-europeo, a riposizionarsi verso contenuti tecnologici più alti, nel perimetro di mercati organizzati per nicchie e segnati da un numero non troppo elevato di imprese. «Per esempio nei telai – spiega Carlo Rogora, amministratore delegato di Itema – ci sono in tutto tre produttori europei. Per noi, come per i due gruppi giapponesi attivi nel nostro segmento, diventa essenziale adoperare la leva tecnologica. Prima di tutto per distinguersi dai concorrenti cinesi: sono una ventina, adesso collocati su fasce di mercato più basse». Il gruppo Itema, che ha sede a Colzate in provincia di Bergamo, ha fatturato l'anno scorso 200 milioni di euro, ha 850 addetti e ha tre realtà manifatturiere (oltre a quella italiana, una in Svizzera a Zuchwill e una in Cina a Shanghai). Impressionante, ed emblematico del processo di internazionalizzazione forzata del settore, è il numero relativo di telai prodotti da Itema destinato ogni anno al mercato interno: su 3mila telai, soltanto 200 finiscono in Italia. In un contesto tanto diversificato, segnato da moltissime stratificazioni specializzative, la sola cosa sicura è il crescente conflitto fra l'Europa e l'Asia. Negli anni Novanta l'Asia è stata l'unica salvezza commerciale, mentre il tessile europeo si assottigliava e quello americano scompariva. Adesso, però, per i produttori europei l'Asia potrebbe diventare una condanna. Soprattutto se il capitalismo manifatturiero cinese proseguirà il suo up-grading. I cinesi cercano anche la crescita per linee esterne, per esempio compiendo periodiche campagne di acquisizioni in Europa, utili per assorbire sconosciuti patrimoni tecnologici. Come ha fatto il maggior produttore cinese, Chtc, che negli ultimi anni ha comprato due imprese tedesche, Monforts e Autefa.
Ma, se il confronto macro è fra Asia e Europa, il confronto micro è naturalmente fra Italia e Germania. «C'è un tema di aggregazioni mancate che rischia di indebolire strutturalmente il nostro meccanotessile – ammette Salmoiraghi – basta prendere, di nuovo, due numeri. L'impresa media tedesca ha oltre 100 dipendenti. L'impresa media italiana ne ha 40. Per noi non è semplice andare a cercare, lontano, i clienti. Così non va bene».

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