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Questo articolo è stato pubblicato il 30 maggio 2013 alle ore 06:47.

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MILANO
«È sbagliato pensare che per attrarre gli investitori esteri si debbano prima risolvere tutti i problemi strutturali del Paese. Nel lungo periodo rischia di non rimanere nulla su cui investire. I nostri nodi vanno affrontati, certo, ma allo stesso tempo dobbiamo decidere quali settori sono cruciali per l'Italia del futuro e lavorare attivamente da ora per costruire un clima accogliente a chi può svilupparli coi propri capitali».
Per Andrea Goldstein – economista Ocse e della commissione economica per l'Asia e il Pacifico dell'Onu – la cronica debolezza dell'Italia (che la crisi ha solo aggravato) di attrarre investimenti dall'estero è, prima ancora che un problema fiscale e di burocrazia, mancanza di visione e ambizione.
Dottor Goldstein, il confronto con altri Paesi sugli investimenti esteri ci relega in fondo. Sempre colpa di Fisco e burocrazia?
Il confronto tra Paesi è sempre difficile. Certo, molti dei nostri freni all'economia sono noti. Ma, ad esempio, dal 2009 la Norvegia, dove la tassazione sul capitale pesa per il 20% del Pil (è al 14% in Italia), ha ricevuto quasi 11 volte più investimenti esteri per capita che il nostro Paese. Noi scontiamo anche la farragginosità della burocrazia statale, regionale e locale. La taglia "small" e familiare di molte nostre imprese rende più difficile i cambiamenti. Ma soprattutto c'è stata una politica miope, incapace di fissare delle priorità, allocare le giuste risorse e attivare interventi puntuali sia per "strizzare l'occhio" agli investirori esteri sia, soprattutto per "accompagnarli" lungo il percorso di insediamento e dar loro motivi per restare.
I soldi però sono pochi. Quale è la sua ricetta?
Il Governo deve individuare alcuni settori strategici di politica economica e industriale per i prossimi anni. Ad esempio, il turismo e anche che tipo di turismo si vuole promuovere, A quel punto, razionalizzare l'apparato istituzionale. Darsi un'agenzia di promozione degli investimenti che agisca operativamente a sostegno delle aziende creando le condizioni di contesto favorevoli per l'imprenditorialità: studiando con i potenziali investitori sul territorio pacchetti integrati di offerte e agevolazioni rispetto alle specifiche esigenze d'insediamento e consolidamento, anche in aree dimesse da recuperare; occuparsi di rimuovere gli oneri fiscali, normativi e di diventare sia "consulente" dell'impresa, ma anche interlocutore della politica per i problemi e gli ostacoli da risolvere. Trentino Sviluppo è un esempio in questo senso. Infine, istituire un foro di altissimo livello dove l'esecutivo incontri regolarmente le grandi multinazionali.
Ma l'Italia non può spendere...
Le nozze non si fanno coi fichi secchi. L'Afii – l'agenzia francese per gli investimenti – malgrado non sia immune dalla stretta fiscale, dispone per il 2013 di un bilancio di 20,9 milioni di euro non a fondo perduto. L'Afii ha un "contrato di obiettivi" triennale con lo Stato da rispettare.
Quali multinazionali potrebbero essere interessate a investire nel nostro Paese?
Va fatto di più per le grandi multinazionali dei Bric che non sembrano interessate all'Italia. Tata, nel Regno Unito è il principale datore di lavoro straniero nell'industria, mentre da noi ha avuto difficoltà a sviluppare i sistemi informatici delle Ferrari, dato che i suoi ingegneri non riuscivano ad avere i permessi di soggiorno. Mentre ci sono le multinazionali tascabili dei Paesi Ocse, che cercano competenze e non sempre sono a conoscenza delle eccellenze italiane. È il caso dell'artigianato di alta qualità, ricco di tecnologie e competenze industriali. Per arrivare in India o Cina ha bisogno di spalle robuste, che molte imprese tedesche o francesi potrebbero garantire. Pensiamo alla fortunata esperienza di Bottega Veneta.
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