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Questo articolo è stato pubblicato il 05 giugno 2013 alle ore 06:47.

La più bella e travagliata storia dell'industria conserviera italiana prende le mosse non nelle assolate pianure della Campania, ma nella fredda e uggiosa Torino. Poco più che ventenne (era nato a Nizza Monferrato il 25 dicembre del 1836), Francesco Cirio nel 1856 apre proprio a Torino il primo stabilimento che porta il suo nome, poi diventato nel mondo il marchio per antonomasia nella lavorazione del pomodoro.
È la pietra miliare che segna il passaggio dalla lavorazione famigliare/artigianale - molto diffusa all'epoca in un'Italia non ancora unita - a quella industriale di legumi e derivati del pomodoro. Solo qualche anno più tardi gli impianti Cirio saranno trasferiti in Campania, legando in modo indissolubile il nome allo slogan "o sole mio".
Oggi l'industria conserviera italiana è la prima a livello europeo e tra le prime a livello mondiale sia per volumi trasformati che per valore prodotto. Ma è anche una industria che ha alcuni punti di debolezza che fatica a superare: dietro ai marchi quali Cirio, Mutti, Santa Rosa, Valfrutta, Jolly Colombani, Bonduelle, De Rica, La Doria solo per citare quelli tra i più visibili sugli scaffali della Grande distribuzuione, ci sono pochissimi gruppi industriali. Il resto delle aziende sono piccole, non organizzate a rete e che producono nella maggioranza dei casi in "private label".
In secondo luogo industria e coltivatori - ad accezione del caso Conserve Italia, il colosso di Confcooperative leader in Italia - faticano a dialogare in una ottica di filiera evoluta o addirittura di distretto industriale.
In terzo luogo abbiamo, da una parte, una miriade di aziende industriali piccole e medie, dall'altra il gruppo cooperativo Conserve Italia che «lavora come una industria - dicono i concorrenti - ma gode sia dei benefici di essere cooperativa che consorzio di agricoltori».
Infine quello che può essere considerato l'ultimo punto di debolezza di questo settore, che per eccellenza storica si identifica con il made in Italy: il pomodoro da industria è ormai una commodity matura, con margini di innovazione limitati, dopo il vero e proprio boom degli anni scorsi quando a fianxo di pelati e concentrato arrivarono le passate, le polpe, i pezzettoni e il pakaging in banda stagnata venne sostituito in buona parte dalla banda smaltata, dal tetrabrik, dalle bottiglie. «Innovazioni sono state apportate anche ai processi produttivi per aumentare sempre più la qualità», dice Annibale Pancrazio, presidente di Anicav, associazione che raccoglie gli industriali trasformatori del Mezzogiorno. «Ed è proprio per l'ineguagliabile qualità della materia prima italiana e per la capacità tutta della nostra industria di trasformazione che, nel settore del pomodoro, l'Italia può ancora oggi competere e vincere con due concorrenti del calibro di Stati Uniti e Cina».
E attirare capitali esteri, come è il caso del gruppo AR dell'imprenditore napoletano Antonino Russo che ha siglato un accordo con la società britannica Princes controllata a sua volta dalla conglomerata giapponese Mitsubishi. Con questa intesa è nata Princes Industrie Alimentari e il gruppo campano ha trovato nuova forza per esportare sul principale mercato europeo di sbocco del pomodoro italiano, la Gran Bretagna.
Come in tanti altri settori del manifatturiero italiano, anche per le conserve vegetali e per i derivati del pomodoro la parola aurea è "export". Gran Bretagna, Germania, Spagna e Francia i mercati principali in Europa; gli Stati Uniti quelli extraUe, con gli emergenti Russia, Giappone e sudest asiatico. Di bassa intensità la concorrenza dei produttori europei, Stati Uniti e Cina sono invece i due competitor che in termini di consumi e produzione in volume e valore surclassano l'Italia. E come sempre più spesso accade nell'agroalimentare, c'è un altissimo tasso di "italian sounding", di imitazione del prodotto italiano che arreca un danno elevato alle nostre aziende. «Ad esempio nel pomodoro pelato – aggiunge il presidente di Anicav – gli Stati Uniti utilizzano moltissimo le varietà a bacca tonda anzichè quelle a bacca lunga come il San Marzano. I cinesi utilizzano tutti i tipi di zucchero per attenuare l'acidità dei loro concentrati e utilizzano coloranti derivati da alcune varietà di riso per dare colorazione rossa intensa.
«Queste produzioni arrivano a prezzi bassi sui mercati dove c'è il prodotto italiano, creando quella che noi chiamiamo una concorrenza sleale, se non una frode perchè spesso il prodotto è etichettato con evidenti richiami all'Italia. Industriali, imprenditori agricoli e autorità italiane devo riuscire a trovare un vero accordo di filiera per contrastare questi fenomeni».
Sembra più facile a dirsi che a farsi, visto che periodicamente le rappresentanze agricole italiane accusano gli industriali trasformatori di lavorare concentrato o pomodori cinesi. «La verità – spiega Pancrazio – è che anni fa alcune aziende cinesi hanno utilizzato l'esperienza e la tecnologia di aziende italiane. Sistemi di processo che poi hanno adottato direttamente in Cina, installando impianti di lavorazione pensati e costruiti da imprese italiane, che sono leader internazionali nel loro comparto. Ma oggi anche loro sono in difficoltà, tanto che nel 2012 la Cina ha ridotto del 40% la produzione di lavorati del pomodoro».