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Questo articolo è stato pubblicato il 02 luglio 2013 alle ore 13:12.

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Pompei sprofonda a Pompei per risorgere a Londra. Il paradosso di un'emigrazione culturale con pochi, o forse nessun precedente, non può essere più evidente, e per certi versi straziante, di quello che emerge dalle lettura comparata delle cronache italiane e del più aggiornato report del British Museum. Mentre il ministro Massimo Bray replica al monito Unesco riaffermando la volontà di difendere il più straordinario sito archeologico minacciato dall'incuria di un Paese viziato dalla sua bellezza, Neil MacGregor, direttore del palazzo di Great Russell street, esulta per i successi britannici di un tesoro d'Italia. Pompei, a queste latitudini, è un gran business. Sbanca. La mostra Vita e Morte a Pompei ed Ercolano s'avvia ad essere il terzo maggior evento nei 250 anni di storia del British alle spalle dei Tesori di Tutankhamen (1972) e dell'Esercito di Terracotta cinese (2007).

Nei primi tre mesi di apertura al pubblico sono sfilate 287mila persone e tutti scommettono che, da ora alla di fine settembre, il target di 450 mila "passaggi" sarà stato bruciato. L'attesa minima è oggi di due settimane, l'ingresso contingentato con blocchi di visitatori ogni venti minuti. Se il British museum ha avuto 1,7 milioni di ingressi dal primo di aprile ad oggi, l'impennata (più 42%) di maggio va ascritta soprattutto a quanto fece la lava del Vesuvio all'alba del 24 agosto 79. E tanto basterà per fare del Museum l'opzione preferita da turisti e non, fra quanto è offerto sotto la generica voce "intrattenimento" in tutto il Regno di Elisabetta. Si fa presto a dire che gli inglesi "saccheggiano" beni e tesori dal resto del mondo (Egitto, Cina e Italia, come indicato, sono i Paesi di provenienza dei blockbuster assoluti del British) per sviluppare il business culturale, ma basta declinare il discettare romano con i fatti londinesi, per sollevarli da qualsiasi "responsabilità" specifica contemporanea (sul passato e sui saccheggi culturali veri non ci addentriamo). Anzi l'effetto indotto di una mostra destinata a produrre un consistente utile, realizzata con munifici sponsor e con la collaborazione della Soprintendenza di Napoli e Pompei, potrebbe anche ricadere positivamente sui siti archeologici, quelli che versano nelle condizioni ripetutamente denunciate. L'exhibition londinese è, infatti, accompagnata da eventi culturali, per lo più lezioni, che ne fanno da corollario, moltiplicando l'impatto sullo spettatore, affinandone la curiosità.

Ancor di più potrà fare, crediamo, il film/documentario, prima produzion nella storia del British Museum, diffuso in anteprima sugli schermi del Regno la sera del 18 giugno e destinato ad essere replicato nelle prossime settimane in tutto il mondo. È una dotta passeggiata nella mostra britannica, con interventi di esperti, corredata da una realtà romanzesca ricreata in studio per dare al visitatore la sensazione di come si viveva, di quel che accadde e di quanto rimane dopo l'eruzione del vulcano. Tutto, o quasi, ricostruito nelle sale del Museum, lontano da Pompei e da Ercolano, da quelle, intendiamo, in… carne e ossa. «Non ci sono scene girate in loco», confermano al press office del British. E forse è meglio così, nell'amara constatazione che ormai non solo i giovani emigrano a caccia di miglior fortuna, ma sembra andarsene, seppure in cartolina, anche il patrimonio culturale, alla ricerca di una gloria che se non è ancora perduta è quantomai minacciata.

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