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Questo articolo è stato pubblicato il 09 luglio 2013 alle ore 06:48.

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Il modello Marche prova il rilancio

Era un modello industriale e distrettuale che per oltre vent'anni ha garantito tassi di crescita cinesi rispetto all'Italia, la distribuzione di valore aggiunto e benessere a una popolazione di poco più di 1,5 milioni di abitanti. Era un modello di capitalismo famigliare (basti pensare ai Merloni, ai Guzzini, ai Della Valle) senza eguali. Oggi il modello industriale delle Marche si è rotto e nessuno ancora sa con precisione come aggiustarlo, mentre non sono poche le voci che dicono che quel modello, fatto di un pulviscolo di microaziende, di contoterzisti, di artigiani e di poche industrie medie e grandi non funziona più. E quindi bisogna scoprire nuove strade di sviluppo.
Intanto la crisi e la recessione incalzano, le aperture delle procedure di mobilità aumentano, i giovani restano senza occupazione. Indesit, Merloni, Berloni, Elica sono solo le aziende più note toccate dalla congiuntura negativa dei mercati. Ma dietro a loro è andato in tilt un ampio tessuto di fornitori, subfornitori e piccole imprese.

Davanti a questo scenario il Governatore della regione, Gian Mario Spacca, ha convocato per domani ad Ancona un Consiglio regionale aperto.

Secondo i dati al 31 marzo 2013, elaborati dal dipartimento mercato del lavoro della Cisl, è stata richiesta Cassa integrazione per 20.690 soggetti, mentre le domande accolte ammontano a 11.974 lavoratori. Da record per la regione l'ammontare dell'importo pagato per Cassa integrazione in deroga: oltre tre milioni di euro. Due i settori in forte sofferenza: il manifatturiero e quello delle costruzioni. Ma in affanno ci sono anche la meccanica, il distretto del mobile, quello dell'abbigliamento. In controtendenza invece il distretto Fermano delle calzature.

Nelle Marche sono registrate 176.555 imprese, di cui ben 102mila sono società individuali e poco meno di 35mila sono società di capitali. Al 31 dicembre 2012, quasi seimila aziende risultavano, secondo i dati della Camera di commercio, in liquidazione, mentre 3.687 aziende erano in procedura concorsuale. Inevitabili i riflessi sul mercato del lavoro: il tasso di disoccupazione ha superato il 9% con punte del 12% nell'Ascolano, il saldo totale tra nuovi assunti e cessazioni è negativo per 23.106 unità. Drammatico il dato relativo ai giovani tra i 15 e i 29 anni: i Net (not in education, employment or training) stanno viaggiando verso le 37mila unità.

A fine giugno Claudio Schiavoni 43 anni, a capo di una azienda (Imesa) attiva nei settori dell'energia e dell'ambiente, è stato acclamato nuovo presidente di Confindustria Ancona per il quadriennio 2013-17. Nella relazione di insediamento che ha letto davanti al presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, è stato molto severo nei confronti proprio delle imprese. «Smettiamola - spiega Schiavoni - di puntare il dito contro gli altri. Dice un detto: se vuoi la città pulita, inizia a pulire l'uscio di casa tua. Facciamo autocritica: quanti di noi, perlopiù piccoli e medi imprenditori, hanno pensato che, unendosi anche con il concorrente, avrebbero potuto raggiungere la massa critica necessaria per affrontare meglio i mercati esteri? Forse lo abbiamo pensato, ma nei fatti nessuno, o quasi, lo ha fatto. Ci siamo cullati nell'idea che nulla sarebbe cambiato. Invece la crisi finanziaria del 2008 e poi la recrudescenza della recessione hanno aperto falle enormi. Chi sta tenendo il mare sono pochi. Sono quelle aziende - aggiunge Schiavoni - che hanno saputo attivare processi di inernazionalizzazione veri».

Nelle parole di Schiavoni si rintracciano due delle cause che hanno portato alla crisi il sistema industriale marchigiano. La bassa propensione a internazionalizzarsi (solo il 35% del fatturato arriva dall'export); la bassissima capacità di fare rete per ottimizzare i processi. E poi una sorprendente ridotta capacità di investire in ricerca e sviluppo.

In base al recente rapporto della Banca d'Italia sull'economia marchiagiana, gli investimenti in R&I rappresentavano nel 2009 lo 0,7% del Pil regionale, valore nettamente inferiore alla già bassa media nazionale (1,3%). Tra il 2008 e il 2010 la spesa innovativa per impresa e per addetto è stata molto più bassa nel confronto nazionale, rispettivamente del 45 e del 35%. Il gap tecnologico emerge da altri due numeri significativi: le Marche sono all'ultimo posto in Italia per numero di imprese che utlizzano la banda larga e tra le ultime cinque regioni per intensità digitale.

«C'è un problema di internazionalizzazione, c'è un problema di competitività, c'è un problema di credit crunch visto che è scomparso il rapporto banca-territorio, ma c'è anche un problema di valuta perché con un euro così forte è vita dura per il nostro manifatturiero». Lo dice Gennaro Pieralisi, presidente del gruppo omonimo attivo nella meccanica e figura storica degli imprenditori marchigiani. «Dobbiamo prendere atto - aggiunge - che il mondo è cambiato. Chi lavora solo per il mercato domestico non ha speranza. E chi dice che lasciare la casa madre in Italia e portare le produzioni all'estero non sa che deve fare i conti con il problema della esterovestizione. Questo per spiegare che il problema Marche è in fondo il problema di un sistema Paese».

«La crisi è diffusa e trasversale - spiega Stefano Mastrovincenzo, segretario generale della Cisl Marche - e questo modello di sviluppo non regge più. Ma la recessione non ha fatto altro che accelerare un processo che ha radici più antiche della fatidica data del 2008. Il distretto della calzatura ha accusato la crisi ben prima degli altri comparti, si è riorganizzato, internazionalizzato, ha fatto rete e oggi ha gli anticorpi per affrontare la situazione. Ma non è semplice, adesso, replicare la terapia. L'imprenditorialità diffusa e la radicata cultura del lavoro da sole non bastano. Occorre uno sforzo corale di Istituzioni regionali, parti sociali e società civile perché il modello va ripensato. Aggregare e razionalizzare, prima di tutto. I servizi alle imprese non sono all'altezza, il terziario avanzato è tutto fuori regione, servono politiche per le reti d'impresa e bisogna concentrare la spesa. Un esempio? in regione abbiamo quattro poli universitari, tre facoltà di giurisprudenza. ci sono 239 Comuni per un milione e mezzo di abitanti, otto aziende per i rifiuti. In compenso siamo deboli nelle politiche attive per il lavoro. La programmazione dei fondi europei 2014-20 è una occasione soprattutto per il tema delle reti. Dobbiamo avere la capacità di intercettare questi programmi superando la nostra frammentazione. E un'altra occasione importante sarà l'avvio della macroregione Jonico-Adriatica, uno dei punti di forza del programma semestrale di presidenza italiana della Ue, di cui a settembre partirà l'iter».

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