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Questo articolo è stato pubblicato il 27 luglio 2013 alle ore 08:25.

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di Luca Orlando Dovremo abituarci.
Quando negli anni '60 Antonio e Marcello Berloni fondarono l'azienda il miracolo economico era qui, mentre oggi è altrove.
E proprio gli investimenti diretti esteri sono forse la miglior cartina di tornasole del nostro progressivo declino: perché un Paese che si colloca nella top ten del pil mondiale ma che è appena 32esimo nella capacità di attrarre capitali esteri dietro a Corea, Malesia e Israele, non può a lungo termine che retrocedere.
L'investimento del gruppo taiwanese a Pesaro è in fondo solo una goccia, una manciata di milioni che rianima solo in parte le statistiche, piuttosto desolanti. Dei 1350 miliardi di dollari investiti oltrefrontiera lo scorso anno nel mondo l'Italia ne ha "catturati" meno di dieci, lo 0,7%, una goccia nel mare. Un problema di volumi e anche di qualità, perché qui gli investimenti esteri "da zero", dunque in nuovi impianti o laboratori, sono in media la metà rispetto a quanto accade in Francia, un quarto del Regno Unito.
Più spesso si tratta di acquisti di realtà già esistenti, scenario che in fondo non deve stupirci più di tanto: il prestigio mondiale dei nostri brand e la capacità manifatturiera che spesso si allarga all'indotto distrettuale sono infatti i nostri punti di forza principali, naturale dunque che gli acquisti si concentrino qui.
Ecco quindi Loro Piana, Cova, Bulgari, Gancia e Parmalat. Ma anche Marazzi, Ducati, ora Berloni.
Casi certamente diversi ma uniti dal filo conduttore dell'incapacità o impossibilità di trovare un acquirente italiano. Il che non è necessariamente un male, perché avere un partner che crede nel marchio e lo sviluppa è senz'altro un'opzione positiva, a maggior ragione se l'azienda si trova in stato di crisi, come Berloni.
Il partner estero, soprattutto se asiatico, è poi in grado in questa fase di offrire contatti e opportunità di sviluppo nelle aree di maggior crescita del mondo, situazione certo gradita a qualunque azienda italiana a fronte della continua caduta del mercato nazionale.
Il rischio naturalmente è che i nuovi "padroni" ragionino in ottica globale, dove l'Italia è solo una casella di una scacchiera più ampia, come dimostra la scelta recente di General Electric di spostare da Firenze a Londra il quartier generale Oil&Gas: nessun dramma, per carità, ma forse in Toscana si stava meglio prima.
La sensazione in generale è che l'Italia in questa fase subisca la globalizzazione più che cavalcarla, da un lato con poche aziende robuste in grado di porsi come poli aggreganti in Italia e all'estero, dall'altro con un sistema paese che scoraggia con fisco, burocrazia e incertezze legislative chiunque ipotizzi di investire qui.
Visto lo scenario, ben vengano i taiwanesi a Pesaro.
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