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Questo articolo è stato pubblicato il 12 agosto 2013 alle ore 09:00.

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Dubai (Corbis)Dubai (Corbis)

«I vantaggi fiscali? Non ci interessavano. Abbiamo scelto la zona economica speciale dell'aeroporto di Dubai essenzialmente perché volevamo essere fisicamente vicini con una nostra sede ai potenziali clienti del Medio Oriente e dell'Asia. Se però avessimo investito direttamente sul territorio degli Emirati, saremmo stati costretti ad avere un socio locale al 51%: e questo proprio non lo volevamo». Sintetizza così, Andrea Meola, la scelta dell'azienda per cui lavora, la Cesi: un big delle consulenze ingegneristiche sulle infrastrutture di rete controllata tra gli altri da Enel, Prysmian e Terna.

Dopo anni di espansione in Nordafrica e in Sudamerica, la Cesi ora ha deciso di far rotta sulla Cina, l'India e i ricchi mercati mediorientali e delle ex repubbliche sovietiche. Tutti Paesi che distano al massimo cinque ore di volo da Dubai. E la scelta di una zona economica speciale (Sez) è stata perfetta, per allestire un ufficio di rappresentanza: burocrazia pressoché zero, servizi di ogni genere (pulizie incluse), nessun dazio su qualsiasi bene importato o esportato, niente tasse ma soprattutto proprietà al 100%, senza appunto l'obbligo di un socio di maggioranza locale di cui doversi fidare.

Per il suo investimento, la Cesi ha scelto il meglio sulla piazza: secondo Fdi Intelligence, Dafza (la Dubai airport freezone, appunto) guida la classifica 2012 delle migliori zone speciali di tutto il mondo e per quest'anno si è già aggiudicata la palma di migliore Sez del Medio Oriente. Altre 26 aziende italiane l'hanno scelta, il 6% di tutti gli investitori presenti: da Luxottica a Montegrappa, da Ariston a Guzzini. Registrarsi qui costa fra i 10 e i 15mila dirham, circa 2.500 euro, e la licenza costa altri 10mila dirham all'anno. Per una società il capitale minimo è 136mila dollari, ma se si apre solo una filiale non serve nulla. Basta affittare un minimo di 350 metri quadrati di spazio arredamento incluso (Dafza ne ha 169mila) e in automatico si ha diritto a due visti di lavoro ogni 25 metri quadri occupati.

Benvenuti nel mondo delle Zone economiche speciali. Sparse sui cinque continenti, se ne contano circa 3mila, ci dice l'International Chamber of Commerce, per un totale di 135 Paesi coinvolti. Danno lavoro a 68 milioni di persone, per un giro d'affari globale stimato in 500 miliardi di dollari. Ciascuna di queste è una specie di zona franca dove non trovano applicazione alcune delle norme internazionali così come delle leggi fiscali, societarie e del lavoro in vigore negli Stati in cui si trovano. In generale, la burocrazia è semplificata, la proprietà dell'investimento al 100% straniera (anche nei Paesi dove è previsto l'obbligo di un partner locale di maggioranza), c'è l'esenzione dalle tasse (sia quelle d'impresa, sia quelle sulle persone fisiche) e quella sui dazi all'importazione così come alla riesportazione dei beni. Sempre in generale, vengono offerti spazi industriali e accesso facilitato ai servizi di elettricità, acqua e alle altre commodities necessarie per la produzione.

Tremila zone speciali sono un mondo vasto. Come si sceglie quella più adatta? «In primo luogo, dipende dal settore in cui opera l'impresa – spiega l'avvocato Rosario Zaccà, partner dello studio Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners, per il quale è responsabile del Desk India –. Per esempio, le free zones stabilite in India, in particolare negli stati del Maharashtra, dell'Andhra Pradesh e del Tamil Nadu, si concentrano sull'information technology, sulle biotecnologie e sul tessile. In Cina, invece, le Sez tradizionali, che risalgono agli anni Ottanta (Shenzhen, Zhuhai e Shantou nella provincia del Guangdong, Xiamen nella provincia del Fujian), si focalizzano sui prodotti hi-tech di fascia bassa».

Nei piccoli Emirati arabi, che da soli ospitano qualcosa come 65 zone speciali, oggi va di moda la specializzazione estrema: da Masdar City, che ospita solo imprese legate all'energia rinnovabile e alle tecnologie green, alla TwoFour54, dedicata al mondo dei media digitali, fino alla Gmad di Abu Dhabi, riservata alle banche e alla finanza, compresa quella islamica. «Le free zones negli Emirati oggi sono tra le più dinamiche – prosegue Zaccà – chi viene qui non lo fa solo per servire il mercato locale, ma sfrutta il luogo come porta d'accesso ai nuovi, grandi mercati del resto del Medio Oriente e dell'Africa».

Altro criterio da prendere in considerazione è quello della vicinanza a importanti nodi di trasporto, soprattutto per quelle imprese che puntano a reimportare i prodotti in Italia, oppure a esportarli altrove. Ad esempio deve molto del suo successo al porto, adatto anche alle navi a pescaggio profondo, la Salalah Free Zone, che si trova in Oman, un Paese non certo ai primi posti nell'interesse degli investitori esteri. Eppure qui sono arrivati il colosso belga della chimica Carmeuse e quello indiano della componentistica auto Brakes: per il porto, appunto, e perché dal 2009 l'Oman ha un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti.

Invece il prezzo - di solito, un'una tantum iniziale più una licenza annuale di permesso da pagare all'autorità della Sez - ha poco peso sulla scelta di una Sez: all'interno di uno stesso Stato, varia al massimo di due-tremila euro. I servizi offerti, invece, sono quelli che contano: «Occorre guardare alle attività di ricerca che già si svolgono in una data free zone – conclude Saccà – alla qualità della manodopera presente, alla possibilità di effettuare outsourcing e trovare aziende fornitrici, nonché alla chance di costruire sinergie con imprese di settori simili, secondo lo schema classico italiano del distretto industriale».

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