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Questo articolo è stato pubblicato il 20 settembre 2013 alle ore 06:53.

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Nell'ottobre 2012 la Commissione Ue ha adottato le nuove linee di intervento in materia di politica industriale, nel quadro di "Europa 2020". Quattro le priorità sulle quali devono convergere le azioni dei singoli Stati membri: investimenti nelle nuove tecnologie e nell'innovazione; miglioramento delle condizioni di mercato; sostegno all'accesso ai finanziamenti (credito più facile); sostenere gli investimenti in capitale umano e competenze.
Su queste direttrici si stanno incanalando le scelte di politica industriale già fatte da Francia, Germania e Gran Bretagna. In un momento quindi cruciale per il futuro dell'industria manifatturiera - siamo il secondo Paese per importanza nella Ue – gli imprenditori italiani lanciano una sorta di ultimatum: il tempo delle parole è finito, bisogna passare ai fatti. Anche se è forte la consapevolezza che troppe volte nel passato si è parlato di politica industriale, ma poi si è fatto ben poco. Anzi. Senza provvedimenti mirati e di largo respiro potrebbe innescarsi un meccanismo senza ritorno che porta alla desertificazione industriale.
E non è solo il recente caso Ilva a getterare ombre sul futuro dell'industria italiana. «Da troppo tempo si parla di politica industriale, ma le parole non sono mai state seguite dai fatti. A crescere è invece proprio quel clima contrario allo sviluppo delle imprese», dice Fabio Storchi, presidente di Federmeccanica e imprenditore di punta nella meccatronica (il suo gruppo Comer fattura 340 milioni in costante crescita).
«È doloroso dirlo ma rispetto ad altri Paesi manifatturieri, l'Italia si è dimenticata da tempo che cosa sia la politica industriale. Siamo molto in ritardo – aggiunge – rispetto a quanto hanno già fatto Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Germania».
Da dove cominciare? «Prima di tutto – spiega Storchi – dalla riduzione del costo del lavoro. Sarebbe stato meglio utlizzare i soldi della cancellazione dell'Imu per abbattere in modo incisivo il cuneo fiscale. E poi avanti con le misure a costo zero per agevolare il rientro di chi ha delocalizzato». Il presidente di Federmeccanica tocca poi un tasto dolente: «È evidente che l'Italia deve recuperare ampie quote di competitività e produttività. Ci riusciremo solo attraverso una nuova cultura delle relazioni industriali. Oggi i rapporti azienda-sindacati sono vetusti. L'antagonismo ha fatto il suo tempo. Siamo al 49esimo posto per competitività e ben al 137essimo posto su 148 Paesi in fatto di rigidità delle relazioni industriali. Non si può parlare di rilancio della politica industriale, del manifatturiero, se non si affronta anche questo problema».
Usa un paradosso, Maurizio Marchesini, per descrivere la politica industriale italiana. L'amministratore delegato dell'omonimo gruppo industriale di Bologna (mille dipendenti tra Italia e estero, più di 200 milioni di fatturato nelle macchine per il packaging), spiega con un pizzico di sarcasmo: «Dopo aver visto quanto è stato fatto negli ultimi anni, forse sarebbe meglio che per i prossimi tre la politica lasci tutto così come è».
Il paradosso delle parole di Marchesini sta nel fatto che dei tanti provvedimenti per l'industria, ben pochi sono andati a bersaglio, mentre tanti altri hanno complicato ulteriormente la vita di chi fa oggi impresa manifatturiera in Italia. Un esempio? Le misure sulla semplificazione, le imprese in un giorno, le concessioni edilizie veloci. Nulla è cambiato e la burocrazia è sempre più invasiva. «Le imprese – dice Marchesini - sono sole, vessate da Fisco e burocrazia e operano in un Paese che non ha una chiara visione della strategia e dell'importanza dell'industria».
Con questi presupposti è «difficle creare quell'indispensabile clima di fiducia adatto a far ripartire la macchina produttiva e attirare investimenti esteri», spiega Lino Mastromarino, presidente di PwC Advisory, uno dei massimi esperti in materia di distretti industriali. «È il momento - aggiunge - di varare una politica per le imprese dgna di questo nome. Davanti alle difficoltà di finanza pubblica, ci sono numerosi interventi a costo zero che posso aiutare quelle imprese sane, e sono migliaia, che possono rimettere in moto il volano della produzione. Si può partire dalla riorganizzazione dei distretti industriali, si può intervenire sui milli vincoli del fare impresa, sostenere le medie imprese del quarto capitalismo. In Italia – dice ancora Mastrimarino – il 40% delle aziende è manifatturiero e dall'industria arriva quasi il 50% del'export e il 27% del Pil. E abbiamo una classe imprenditoriale capace e preparata. Non lasciamola da sola in preda alla sfiducia».
Questa estate, durante l'assemblea di Confindustria Padova, il giovane presidente Massimo Pavin (industriale attivo nella plastica con impianti in Italia, Polonia e Brasile e 160 milioni di ricavi) aveva detto al ministro dello Sviluppo economico, Flavio Zanonato, seduto in platea: «È il momento delle scelte cruciali. Forse oggi è anche il tempo di portare a Roma le chiavi delle nostre imprese per rappresentare civilmente la rabbia e la solitudine di chi oggi in Italia ha ancora il coraggio di fare industria».
«Quello che manca - dice oggi Pavin - è la presa di coscienza dei problemi da parte della politica. Se si continua così, la deindustrializzazione sarà presto realtà. Sono già moltissimi i capanoni vuoti nel Nordest e chi ha delocalizzato, difficilmente tornerà sui suoi passi. Noi, in Polonia, abbiamo aperto un impianto produttivo in 12 mesi. Qui servono almeno tre anni per una licenza. Questa non è politica industriale».

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