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Questo articolo è stato pubblicato il 24 settembre 2013 alle ore 06:51.


BOLOGNA
Cersaie non è solo la più importante fiera mondiale della piastrella, una vetrina dell'eccellenza ceramica italiana, un crocevia globale di competitor, «ma un vero strumento di politica industriale, di cui il governo deve tenere conto, perché se oggi Mapei è un gruppo internazionalizzato che produce in 33 paesi di cinque continenti è perché è espositore qui a Bologna da mezzo secolo, prima al Saie e poi al Cersaie, fin dall'edizione numero uno». Il presidente nazionale di Confindustria Giorgio Squinzi (amministratore unico di Mapei) non ha dubbi sul ruolo del Salone internazionale della ceramica e dell'arredobagno che ha festeggiato ieri a Bologna il suo 31° compleanno, con 898 espositori da 35 nazioni e l'obiettivo di replicare i 100mila visitatori dello scorso anno: «È una fiera straordinaria che mantiene una leadership e una forza unica su scala globale».
Una leadership che è lo specchio dell'eccellenza manifatturiera italiana, che né la perdita di quote di mercato né il clamoroso sorpasso dei cugini spagnoli per volumi produttivi (si veda Il Sole 24 Ore del 10 settembre scorso) mettono in discussione: con 4,6 miliardi di fatturato 2012 (che sale a 6,6 miliardi sommando la produzione dei 20 stabilimenti italiani all'estero e il business di ceramica sanitaria, stoviglieria e refrattari), le 159 industrie italiane di piastrelle si confermano regine dei commerci mondiali con oltre il 34% del mercato. Al top per innovazione, design, qualità, sostenibilità. Prime grazie a un distretto, Sassuolo, dove si concentra l'82% del made in Italy. «Un caso straordinario di impollinazione incrociata che arricchisce tutta la filiera costringendola all'innovazione costante – ricorda Squinzi – con una proiezione fortissima alla globalizzazione, tanto che economisti come Porter lo hanno studiato. Un'eccellenza costretta poi a battersi contro le miserie quotidiane di bretelle stradali che non si costruiscono e tratte ferroviarie così costose che conviene importare la materia prima dall'Ucraina».
La crisi c'è e si legge chiara nei numeri del settore: i 367 milioni di mq di piastrelle prodotti l'anno scorso sono appena il 60% di quanto si fabbricava a inizio millennio. E i 919 milioni di euro di fatturato Italia sono ben lontani dagli 1,6 miliardi del 2007. Pure l'export, 3,66 miliardi nel 2012, ha perso quota rispetto ai 4,2 miliardi pre crisi. A mitigare i segni meno non c'è però solo l'effetto benefico delle fabbriche italiane all'estero (+14,3% i ricavi 2012), ma anche i timidi segnali di risalita che arrivano ora dalla produzione italiana: il +2,4% di export nel primo semestre 2013 riesce a compensare il -6,6% di vendite sul mercato interno e il settore chiude così la metà anno con un +2% generale (operazione non riuscita nel 2012, archiviato con un -2,9% di fatturato, tra il -20%di vendite Italia e il +2,6% oltrefrontiera).
«Indicatori che ci inducono a essere ottimisti», conferma in serata il dg dell'Ice, Roberto Luongo, intervenuto alla conferenza stampa internazionale Ceramics of Italy, in pieno centro a Bologna, tra accenti spagnoli, russi, turchi, arabi, americani. Un Ice che ha bisogno di fondi, ricorda Luongo riecheggiando le parole spese da Squinzi in mattinata al Palazzo dei congressi: «L'Ice spagnolo riceve 150 milioni di finanziamenti annuali, il nostro Governo ne ha stanziati 30 quest'anno e 50 nel 2014, non basta». Così come non basta il credito fin qui erogato alle imprese ceramiche, denunciano gli industriali, che per aprire una fabbrica all'estero spendono tra i 60 e i 100 milioni di euro e chiedono alle banche di fare sistema. «Noi abbiamo bisogno di fare credito e nonostante la crisi violenta i nostri prestiti al settore ceramico sono lievemente saliti, a differenza di altri settori. Ma c'è un problema di costo del credito legato all'instabilità politica che scontiamo anche noi banche», afferma Federico Ghizzoni, Ceo di Unicredit, che ha da poco iniettato un miliardo di euro per far ripartire una sessantina di cantieri edilizi bloccati nel Paese, impegnandosi a finanziare al 2% i futuri acquirenti.
Segnali di un intento condiviso e comune per rimettere in moto la filiera dell'abitare e l'occupazione: si sono persi 10mila posti di lavoro nell'industria ceramica, dagli anni Duemila a oggi. E per i 28mila addetti rimasti in Italia si apre ora la difficile partita del rinnovo contrattuale, tra esaurirsi degli ammortizzatori sociali e l'emergenza welfare su un fronte e, sull'altro, le esigenze delle aziende di aumentare produttività e flessibilità per restare competitive sui mercati globali .
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