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Questo articolo è stato pubblicato il 02 ottobre 2013 alle ore 08:22.

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Che l'Archimede solar energy sia l'avanguardia nel solare termodinamico lo dice innanzitutto l'interesse internazionale che ha sviluppato. In Arabia, negli Stati Uniti, in Cina. «Si stanno aprendo mercati molto interessanti, sui quali le aziende italiane potrebbero competere». Parola non di economista ma di scienziato, quella di Francesco Di Mario, responsabile dell'unità tecnica Fonti rinnovabili dell'Enea, l'Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile.

Qual è il passo che manca per andare alla conquista del mondo?
Dimostrare che con la tecnologia italiana si possono fare impianti da 30 o 50 Megawatt, come quelli progettati per la Sardegna.

La delibera 5/525 del 29 gennaio del 2013 della Regione Sardegna però fa riferimento a una serie di criticità, soprattutto di natura ambientale e paesaggistica.
L'impianto ideato per la Sardegna occupa un certo numero di ettari dove ci sono specchi parabolici e una turbina a vapore. È un impianto industriale che non ha un impatto visivo nullo. Però qualunque installazione di qualunque tipo modifica il paesaggio, ma in questo caso l'impatto ambientale è zero. I sali fusi si usano come fertilizzanti. Quindi se anche ci fosse una perdita di sali non ci sarebbero conseguenze di nessun genere. L'altro materiale che gira nell'impianto, oltre i sali fusi, è il vapore. Anche in questo caso l'impatto ambientale è zero.

Dal suo punto di vista non dovrebbero esserci freni locali al progetto?
Al contrario. Tra l'altro questi impianti portano molto indotto perché per la loro realizzazione ci si deve avvalere delle aziende e della manodopera locale. Non si tratta soltanto di un impianto che viene portato lì e installato. C'è una partecipazione dei partner locali per tutte le operazioni, dalla preparazione del terreno alle strutture di sostegno degli specchi.

Come è nato il progetto?
Il progetto è partito sotto la spinta del professor Rubbia nel 2001 quando la tecnologia su cui si basava il solare termodinamico si era un po' fermata e c'era l'esigenza di introdurre delle innovazioni che consentissero di progredire. Non ultimo per far ripartire il mercato di queste tecnologie che era fermo agli impianti progettati 10-15 anni prima e utilizzavano olio diatermico, derivato dal petrolio, come fluido per assorbire e trasferire l'energia solare.

Qual è la novità?
Con il vecchio sistema la temperatura massima che si riusciva a raggiungere era di 380 gradi. L'intuizione del progetto nato sotto l'ala del Nobel Rubbia fu quella di usare al posto dell'olio i sali fusi che consentono di superare i 550 gradi. Calore a più alta temperatura significa vapore che va in turbina con una pressione maggiore e quindi consente un maggior rendimento del ciclo termico. E questo è un primo vantaggio. L'altro vantaggio è che il volume di accumulo, utilizzando i sali fusi, è molto ridotto. Quindi si riesce ad accumulare la stessa energia ma con un volume molto ridotto, circa 2,5 volte inferiore.

Tutta la componentistica è italiana?
A poco a poco si sono sviluppati i componenti ad hoc, uno dei quali, il più importante è certamente il tubo ricevitore che è prodotto da Angelantoni su brevetto Enea. La forte collaborazione con molte aziende italiane ha consentito di sviluppare una filiera nazionale sulla componentistica.
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