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Questo articolo è stato pubblicato il 29 ottobre 2013 alle ore 22:30.

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(Corbis)(Corbis)

La sicurezza alimentare è un requisito chiave per veicolare l'export (lo sostiene l'84% dei manager italiani del settore) e per proteggersi dalle contraffazioni (75%), ma anche per valorizzare il brand (46% delle risposte) e per sostenere la competitività (44%). Il 97% delle imprese lamenta però la complessità delle normative, legislazioni concorrenti e troppi soggetti coinvolti nei controlli. Lo spaccato emerge dalla ricerca Ispo presentata oggi in anteprima a Bologna da Renato Mannheimer, in occasione del convegno nazionale "La sicurezza alimentare: una questione di etichetta" organizzato da Tüv Italia.

Da un lato normative troppo complicate, dall'altro tempi di risposta delle istituzioni non compatibili con quelli del mercato: sono i due fronti nemici con cui quotidianamente si scontra chi in Italia (ma nel resto d'Europa non va meglio) si occupa di sicurezza alimentare e di produzioni di qualità. Se è difficile per le Pmi agroalimentari italiane muoversi tra leggi, certificazioni ed etichette in patria, lo è ancor di più quando si decide di portare il made in Italy oltrefrontiera. Anche perché sulla sicurezza dei nostri piatti tipici il consumatore estero non accetta compromessi, ritenendola un requisito di base della qualità italiana. La ricerca dell'Ispo - che ha interpellato i top manager di 80 grandi aziende italiane dell'agroalimentare - conferma infatti che la sicurezza alimentare è imprescindibile, perché è il secondo valore riconoscibile del made in Italy dopo la bontà (il gusto) del prodotto.

Se il tema della sicurezza alimentare diventa prioritario, ecco spiegato perché il business dei collaudi corra a due cifre anche in un anno in cui il settore agroalimentare soffre della cinghia tirata dalle famiglie italiane. «L'attenzione dei nostri produttori si sta spostando verso i mercati esteri e parallelamente il ruolo di Tüv si sta allargando dal mero collaudo a quello di partner delle aziende, in grado di accompagnarle, sia in patria sia all'estero, nel processo che parte dalla sicurezza intrinseca del prodotto, passa per il groviglio normativo che cambia di Paese in Paese e arriva alla soddisfazione di un consumatore finale sempre più consapevole ed esigente», spiega Ettore Favia, amministratore delegato di Tüv Italia.

Uno dei primi tre operatori nazionali della certificazione, 500 addetti e 60 milioni di ricavi, all'interno del gruppo bavarese Tüv Süd che tra certificazioni e ispezioni è arrivato a coprire 80 Paesi nel mondo con quasi 19mila dipendenti e 1,8 miliardi di fatturato. «Una cosa è certa - aggiunge Favia - non c'è più spazio sui mercati per le piccole imprese con gamme di prodotto standard. O si fa alta qualità di nicchia o bisogna avere i grandi volumi dei colossi alimentari e della Gdo».

Che i prodotti italiani siano di buona qualità lo si deduce dal fatto che le nostre aziende - rileva sempre l'indagine dell'Ispo - spendono in media in un anno meno del 5% del fatturato per richiamare prodotti non conformi e pur sapendo che raggiungere più elevati standard di sicurezza costerebbe meno del 5% del fatturato, non lo fanno perché i clienti non sarebbero disposti a spendere un 5% in più per avere una superiore garanzia.

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